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20 gen 2015

L'abbaglio centralista

di Luciano Caveri

Appare, nella storia italiana (quindi, in modo propriamente detto, dopo l'Unità d'Italia), nei suoi passaggi cruciali, come la politica sia stata abbacinata dalla logica centralista. Il dibattito risorgimentale, imbevuto di due modelli contrapposti fra un federalismo all'italiana e uno Stato Nazione centralista, vide vincente il secondo. Il Fascismo fu centralizzazione e dittatura nello stesso tempo. La Costituente volle un'Italia regionalista con le Autonomie speciali come punta di diamante, ma l'applicazione fu a favore del centro con alti e bassi, di cui il caso valdostano - come un sismografo per i terremoti - è stato utile caso di scuola. Dopo una fiammata di regionalismo ai confini del federalismo della riforma del Titolo V del 2001, oggi siamo in piena controriforma e ritorna in auge l'abbaglio federalista. Matteo Renzi, convinto di fare il "Sindaco d'Italia" pensa - preso dalla terribile adrenalina del potere di Palazzo Chigi - di poter tutto comandare. Un errore macroscopico, ma che gode di ampio consenso e dunque per chi crede nel federalismo saranno tempi duri. Mi sono venuti in mano due articoli scritti da una esperto della politica della montagna, l'antropologo Annibale Salsa, amico della Valle d'Aosta, scritti per l'Accademia della Montagna di Trento.

Il primo ricorda la "Carta di Chivasso" del 19 Dicembre 1943, nota anche come "Dichiarazione dei Rappresentanti delle Popolazioni Alpine". Scrive l'autore: «La situazione in cui venivano di fatto a trovarsi le comunità alpine, umiliate nelle loro ultrasecolari prerogative di autogoverno, induce alcuni personaggi di grande spessore intellettuale, rappresentativi delle comunità valdese e valdostana, ad indire una riunione clandestina nella località piemontese. E' l'inizio della resistenza alpina». Dopo aver ricostruito il clima dell'epoca e la storia personale degli esponenti che parteciparono all'incontro, inserita nella storia delle loro comunità, valdostana e valdese, Salsa aggiunge: «Il federalismo viene proposto quale modello di riferimento per un'Italia nuova saldamente agganciata all'Europa, fondata su quelle autonomie di cui le Alpi sono state antesignane, ben prima delle pianure che stanno ai loro piedi! (...) Nel documento da essi sottoscritto, e tralasciando le premesse riferite a quel contesto storico-politico, si fanno affermazioni che conservano pienamente la loro odierna attualità. In tema di federalismo si dice che esso: "rappresenta la soluzione del problema delle piccole nazionalità e la definitiva liquidazione del fenomeno storico degli irredentismi, garantendo nel futuro assetto europeo l'avvento di una pace stabile e duratura (...) che un regime federale e repubblicano a base regionale e cantonale è l'unica garanzia contro un ritorno della dittatura"». Salsa aveva già scritto della Dichiarazione in un illuminante articolo dedicato a Luigi Einaudi, politico di area liberale e conoscitore e difensore della causa valdostana. Così spiegava degli estensori della Carta e condivido: «La loro riflessione politica verteva sulla questione della montagna alpina in quanto cerniera fra popoli e culture, simili e diverse al tempo stesso. Niente a che vedere, quindi, con le pianure, siano esse padane, rodaniane, renane o danubiane. Essi avevano a cuore il problema delle terre alte e delle loro genti i cui modelli sociali ed economici poco avevano ed hanno a che vedere con le prospicienti pianure. Anzi, per una evidente economia di scala, quando le montagne dipendono dalle pianure, vengono fagocitate in un soffocante rapporto di subalternità». Ma ecco il riferimento al modello centralista oggi in grande auge, come proposto da Salsa: «I firmatari della Carta delle autonomie alpine sollevavano, altresì, il problema della inadeguatezza del modello centralizzato burocratico di tipo prefettizio. Fatto salvo il principio dell’Unità nazionale, essi interpretavano il federalismo alla stregua di uno strumento democratico che, responsabilizzando i poteri decisionali locali, avrebbe avvicinato il cittadino-montanaro al buon governo della cosa pubblica. Il riferirsi espressamente all'ordinamento cantonale elvetico, per il quale le diversità linguistiche, etniche e culturali trovano nell'organizzazione federale uno strumento forte di contrasto alle tentazioni secessionistiche, ai localismi, ai campanilismi, ai centralismi regionalistici, costituiva il migliore antidoto all'endemico male italico». Poi Salsa ricorda di Luigi Einaudi e dell'esilio elvetico, passando dalla Valle d'Aosta: «Dopo l'8 Settembre 1943 Einaudi si rifugia in Svizzera ed il 17 Luglio 1944 pubblica con lo pseudonimo Junius su "L'Italia e il secondo Risorgimento", supplemento della "Gazzetta Ticinese" di Lugano, un saggio dal titolo "Via il Prefetto!". Può essere significativo osservare che Einaudi era originario, in linea paterna, di una valle alpina dalle forti tradizioni di autogoverno. Si tratta dell'occitana Valle Maira che, sino alla fine del XV secolo, godeva di una notevole autonomia e prosperità nell'ambito del Marchesato di Saluzzo. Culla della lingua d'Oc e della cultura provenzale alpina, impreziosita dal ciclo pittorico fiammingo di Hans Clemer voluto dal mecenatismo illuminato del Marchese, diventerà una delle valli più povere del Cuneese dopo l'affermarsi del modello centralistico sabaudo. Scriverà il nostro ex Capo dello Stato a proposito delle sue origini familiari: "Gli Einaudi vengono dalla Val Maira, sopra Dronero, e lì si contano più Einaudi che sassi... tutti montanari, boscaioli, pastori e contadini". Poi la famiglia si trasferirà nelle Langhe monregalesi di Dogliani, terra di Dolcetto e di colline, dove avvierà un'impresa agricola. Il suo curriculum di liberale e liberista è ben noto». Ma dicevamo dell'articolo, noto per la proposta di scardinamento del sistema centralista, così introdotto dell'autore: «Trattandosi di un pamphlet polemico, Einaudi denuncia in maniera graffiante l'istituzione prefettizia di derivazione napoleonica, che egli riteneva responsabile della pesante gestione centralistica propria dello Stato italiano, in una versione imitativa peggiorata rispetto allo Stato francese. In un passaggio del testo in questione si legge: "Coloro i quali parlano di democrazia e di costituente e di volontà popolare e non si accorgono del prefetto, non sanno quel che si dicono. (...) Forse i soli europei del continente, i quali sentendo quelle parole le intendono nel loro significato vero sono, insieme agli scandinavi, gli svizzeri. Essi sanno che la democrazia comincia dal comune, che è cosa dei cittadini. L'autogoverno continua nel Cantone, il quale è un vero Stato, il quale da sé si fa le sue leggi (...) L'unità del Paese non è data dai prefetti. (...) L'unità del Paese è fatta dagli Italiani. Dagli Italiani i quali imparino a proprie spese a governarsi da sé». E ancora: «Ricostruire lo Stato partendo dalle unità che tutti conosciamo ed amiamo; e sono la famiglia, il comune, la vicinanza e la regione. Così possederemo finalmente uno Stato vero e vivente". Viene da domandarci: la civiltà alpina è stata e può essere ancora un laboratorio di uomini liberi?». Bella domanda in epoca di "abbaglio centralista" e di una civiltà alpina che deve fare i conti con cambiamenti al galoppo e deve difendere le punte più avanzate di autonomia e non cedere al gusto masochista di chi ha meno e godrebbe di un generale arretramento. Meglio per tutti elevarsi.