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19 gen 2015

Dall'antipolitico all'apolitico

di Luciano Caveri

L'antipolitica ormai è stata rivoltata come un calzino. Il fenomeno è sempre esistito, ma ogni epoca ha i suoi mal di pancia. E nell'Italia odierna - e la Valle d’Aosta a traino, perché non viviamo sulla Luna - si sono raggiunti livelli mai visti. Oggi, in sostanza, essere o essere stato politico è una vergogna, una specie di segno distintivo da paria. Uno, specie se pensa di aver fatto il proprio dovere in politica, se ne può dispiacere, ma non può aspettarsi grandi distinguo e men che meno la riconoscenza per certe cose fatte. Molte volte mi è venuto da sorridere in discussioni "da compagnia", quando qualcuno dette "peste e corna" e peggio ancora dei politici, resosi conto della mia presenza, effettua con un tiro in calcio d’angolo all'ultimo istante: «eccetto chi è presente». Come dicevano i latini "Excusatio non petita, accusatio manifesta" e cioè "Una scusa non richiesta suona come un'autoaccusa". Per altro, ormai ci ho fatto il callo e quindi davvero posso essere zen senza far finta.

Ma dovessi dire ormai più che l'antipolitica, che come dicevo è ampiamente investigata, trovo crescente un atteggiamento ancora diverso: il trionfo dell'apolitico, spesso in connessione con la tipologia del disinformato. L'apolitico è chi ha staccato la spina o forse non l'ha mai davvero messa nella presa e vive in una bolla di totale catatonia rispetto ai problemi delle Istituzioni e della Democrazia. Talvolta, come dicevo, questo si somma a un fenomeno di disinformazione totale o parziale, che significa la creazione, nella propria vita, di una specie di "bolla di sopravvivenza" che lo rende avulso dalla quotidianità, che pare raggiungere certi soggetti solo a fronte di fatti clamorosi o eventi catastrofici. E' un fenomeno orizzontale, che colpisce anche persone impensabili. La "cartina di tornasole" che li fa scoprire è nella discussione, quando scopri che su certe questioni ci sono degli abissi che stupiscono. Sarà bene rifletterci, specie per un mondo della politica che ha spesso la presunzione che ad ogni stormire di fronde ci sia un interesse generale dell'opinione pubblica. Per poi invece scoprire che c'è molta apparenza e poca sostanza fra l'invio del messaggio e la sua ricezione. Questo per la Democrazia non è un fatto di poco conto, perché insito nei meccanismi complessi c'era - come una specie di olio lubrificante - la logica partecipativa, la conoscenza dei rudimenti essenziali e la necessaria informazione su quanto avviene. Molto spesso questa logica non funziona più ed una parte di persone scelgono di non partecipare al gioco. Bisognerà riflettere su che cosa non ha funzionato nel mito della cittadinanza consapevole. Che cosa spinga, anche a fronte di un periodo di crisi, a certi ripiegamenti nel privato, persino privo di quegli elementi di giudizio che consentono di controllare quanto avviene. E questo addirittura in una realtà come quella valdostana, dove - sarà pure con una certa ingenuità alla Rousseau - la piccolezza del campione, la prossimità delle Istituzioni, il cemento di rapporti umani più facili dovrebbero essere una garanzia per far funzionare quelle cose che nelle grandi dimensioni non sono possibili. Non è questo un elemento solo di delusione o di preoccupazione, ma innesca la necessità di chiedersi se e come sia possibile invertire la situazione in atto. Pensando, tra l'altro, che la rivoluzione digitale consente porte d'accesso, d'informazione e di discernimento infinitamente superiori a quanto potesse avvenire al passato. E invece la "democrazia 2.0" sembra essere una realtà altrettanto balbettante. Forse verrà un tempo di risorgimento dopo un periodo d'involuzione, come spesso avviene nel ritmo delle maree della nostra identità umana.