Utilizziamo i cookie per personalizzare i contenuti e analizzare il nostro traffico. Si prega di decidere se si è disposti ad accettare i cookie dal nostro sito Web.
30 dic 2014

Contro l'amnesia

di Luciano Caveri

Come eco dal passato, in questi giorni festivi, arrivano pensieri e memorie. Sarà quella nostalgia che deriva dalle evocazioni di fatti e persone caratteristiche di incontri familiari, ma tant'è che capita di riflettere su certe storie. E non mancheranno presto delle occasioni per tenere allenata la memoria. Lo scrittore francese Patrick Modiano, ricevendo il "Nobel per la letteratura" giusto all'inizio di questo mese ha detto: «J'ai l'impression qu'aujourd'hui la mémoire est beaucoup moins sûre d'elle-même et qu'elle doit lutter sans cesse contre l'amnésie et contre l'oubli». L'inverno 1944-1945 fu terribilmente freddo, uno di quegli avvenimenti secolari, come se anche la Natura volesse esprimere il suo dissenso verso quella Seconda Guerra mondiale che volgeva al termine. E pensare che non esisteva ancora una piena consapevolezza dell'insieme di errori raccolti in pochi anni. Quel freddo lo ricavo dal diario scritto da mio papà, che su un calepino annotava la sua prigionia fra Germania e Polonia assieme ad un gruppo di alpini valdostani spediti in campo di internamento fra il maggio del 1944 e la primavera dell'anno successivo. Le temperature segnate fanno impressione, così come le nevicate. Non posso non pensare al paradosso di mio papà che accompagnava gli ebrei in fuga in Svizzera attraverso la conca di By e poi il destino di capire ad Auschwitz che i camini fumanti erano i corpi bruciati degli ebrei uccisi con il gas per la "soluzione finale". Ma più i mesi passavano e più si capiva che la fine della guerra era vicina e fu una fuga a consentirgli di riportare a casa la pelle! Al rientro non sarà mai più lo stesso, con quel pezzo di sua gioventù inghiottito e mai restituito dalla Storia. Penso anche a mio zio Ulrico Masini, capo-partigiano di "Giustizia e Libertà" in bassa Valle e ai suoi racconti di quei mesi durissimi nel gelo, ma con la speranza che si stesse per voltare pagina. Lo ricordo, ormai ultraottantenne, quando si interrogava su che cosa non avesse funzionato in quell'agognato ritorno alla democrazia. Era la sua una rabbia sorda. Ci avviciniamo al settantesimo anniversario della Liberazione in un contesto politico complesso e lo è anche per chi milita in quell'area dell'autonomismo valdostano che mio papà ed Ulrico condividevano. Come tanti giovani valdostani di allora si sacrificarono per la libertà della Valle d'Aosta e accettarono di vivere la loro vita nel quadro pieno di speranze dell'autonomia speciale. So bene cosa penserebbero della situazione attuale di messa in discussione del nostro ordinamento politico e di quei valdostani indifferenti o persino passivi, esattamente come a suo tempo mi ricordavano che avessero fatto, sotto il regime fascista, troppi valdostani acquiescenti al tentativo di distruzione dell'identità valdostana. Così ogni riferimento storico è bene tenerlo a mente. Così sarà per i cent'anni dall'ingresso in guerra dell'Italia nella Prima Guerra Mondiale del prossimo anno: la strage di giovani alpini valdostani dall'altra parte delle Alpi, nel dare e nell'avere con l'Italia, ha pesato come un macigno ed è bene evitare l'oblio.