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19 nov 2014

Fortuna che non ho fatto l'astronauta

di Luciano Caveri

Per le generazioni degli anni Cinquanta - a "domanda risponde" degli adulti molesti al quesito «cosa vuoi fare da grande?» - la scelta a colpo sicuro era: «l'astronauta!». Nel mio caso la speranza era in un comitato disposto. Da una parte ero vittima del celebre e visionario libro di Jules Verne (leggete la storia della sua vita, del tutto in linea con i suoi romanzi), intitolato "Dalla Terra alla Luna", datato 1865. Ma anche del film impressionante del 1902 "Il viaggio nella Luna" di Georges Méliès, che vidi nella vecchia televisione in bianco e nero con il razzo conficcato in un occhio della luna con il faccione. Dall'altra mi sono beccato, eccettuato il primo "Sputnik" perché non ero ancora nato, larga parte dei momenti pionieristici dell'astronautica. Il mio primo cane lupo fu chiamato "Laika" dai miei genitori in onore della cagnetta che finì abbrustolita nello "Sputnik 2". Dalla televisione vedevo sia i razzi sovietici che partivano da Baikonur, sia quelli americani da Cape Canaveral (mi viene subito a mente la voce inconfondibile del mio amico Ruggero Orlando). Apoteosi fu l'allunaggio avvenuto il 20 luglio 1969 con l'"Apollo 11", quando avevo dieci anni e non mi capacitavo in una notte imperiese della corrispondenza fra quelli lassù e la Luna sul mare. Per fortuna, direi, non ho seguito la carriera di astronauta: per seguire avventure davvero da brivido bisogna guardarsi i film di fantascienza, perché in questi anni gli astronauti hanno fatto - con tutto il rispetto per il loro lavoro e per chi ci ha lasciato purtroppo la vita - i "travet", in particolare in quella sorta di speculazione edilizia spaziale, che è stata dal 1998 ad oggi la "Stazione spaziale internazionale". Accrocchio tecnologico che orbita da meno di vent'anni sopra la nostra testa ed è abitata, con turni tipo "multiproprietà", dal novembre del 2000. Ecco perché mi ha dato un brivido che il piccolo robot - tipo lavatrice - sia riuscito, con gran merito per una volta di un progetto targato Unione europea, ad atterrare (mi manca il verbo giusto, genere "accometare") sulla cometa "67/P Churyumov-Gerasimenko", che mai diventerà meta di vacanze sia perché i luoghi non paiono ameni, ma anche per la difficoltà di pronuncia della località da sottoporre al proprio agente di viaggio. L'aspetto che più mi piace di questa avventura spaziale è che finalmente, se dovesse arrivare una schifezza dal buio dello spazio per far scomparire l'umanità, come avvenne probabilmente con i dinosauri, basterebbe spedire una bella lavatrice, con qualche carica nucleare per far scoppiare l'asteroide assassino. Déjà vu nel solito film. Però resta un però: e gli astronauti? Capisco che i robot non siano mortali (in realtà lo sono, ma non è una mortalità umana...), ma non si può pensare che le nuove Frontiere non vedano degli uomini o donne in pelle e ossa con la loro sensibilità e quelle intuizioni, che per ora ci appartengono ancora in parziale esclusiva. C'è chi in sostanza ricorda che la fragilità della nostra Terra dovrebbe prevedere vere e proprie esplorazioni che ci assicurino, come capita anche in un cinema di periferia, un'uscita di sicurezza. Classico caso in cui spetta alle generazioni attuali pensare a che cosa ne sarà dei nipoti dei nipoti dei nostri nipoti. Poi magari la nostra pigrizia interstellare sarà colmata in fretta dall'arrivo degli alieni a cavallo dei loro "Ufo". In quel caso speriamo che tutto il filone catastrofista imboccato dalla fantascienza sia solo una panzana, altrimenti non ci sarà assicurazione antinfortunistica o sulla vita che tenga. I lumaconi spaziali o chissà quale altra eccentrica forma di vita (ma chissà come siamo brutti noi per loro) ci faranno vedere i sorci verdi.