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21 ott 2014

Lo statalismo antiregionalista

di Luciano Caveri

In un Paese normale, ammesso e non concesso, che dovesse continuare la "tosatura" delle Regioni, già ampiamente spiumate negli anni passati, il premier - chiunque esso fosse - avrebbe dovuto chiamare i presidenti delle Regioni e delle Province autonome e dir loro: «vi chiediamo un salasso ulteriore, cosa ne dite, cosa ne pensate?». Invece Matteo Renzi, come Silvio Berlusconi e Mario Monti, ma con l'aria di chi se ne sbatte delle critiche, ha fatto tutto da solo, smentendo un accordo raggiunto poche settimane fa con il presidente piemontese, Sergio Chiamparino.

Conosco il "Chiampa", credo che sia rimasto sconvolto del fatto che si sia venuti meno ad un accordo fra gentiluomini, lui vecchio torinese sabaudo e pure ex comunista. Ma la "nuova politica" non è liquida, come dice il sociologo Zygmunt Bauman, ma effervescente, come la celebre acqua. Contano le bollicine, come quelle ancora più prestigiose e volatili dello champagne. E invece sul regionalismo a rischio, con l’appoggio di qualche presidente "renziano di ferro" come quella ex star del nuovismo che è la presidente del Friuli Venezia Giulia, Debora Serracchiani, Renzi ha reagito attaccando. Qualche "reggicoda" si è pure lanciato nel solco di una vecchia idea di Renzi - accantonata nella riforma costituzionale varata dal Senato, sennò non avrebbe avuto i voti per approvarla - quella di accorpare le Regioni, se non addirittura di chiuderle. Per altro, se la logica è quella di ridimensionare le Regioni sino al lumicino, senza soldi e con poteri e competenze ridimensionate come da rampante e già citata riforma costituzionale, meglio andare al patibolo e "buonanotte suonatori". Si abbia il coraggio di chiamare le cose con il loro nome: se "regionicidio" deve essere lo si porti a compimento sino in fondo. Naturalmente non sono d'accordo e ogni svolta autoritaria porta in dote il ridimensionamento del sistema autonomistico. So bene che molte Regioni sono state sprecone e che le cose non funzionano a meraviglia. Ma l'alternativa in Italia è quella macchina ancora peggiore che è rappresentata dallo Stato centrale? Totò avrebbe risposto «Ma mi faccia il piacere!». Per cui - di fatto - siamo in un "cul de sac" ed anche il superamento probabile di questa frattura sulla "Legge di stabilità" non ci porterà lontano. Lo scriverò sino allo sfinimento: si è passati da un federalismo all'italiana, in cui mai alle promesse sono seguiti i fatti, ad un neocentralismo che ruota tutto attorno alle capacità di un sola persona a Palazzo Chigi e di uno staff ristretto di "decisori". La logica è quella solita dell'uomo del Destino che da solo sconfigge draghi e leoni e rimette in sesto la baracca fra gli applausi, dopo aver usato forbici e ghigliottine o, forse, spade rotanti come "Goldrake". E' un'avvilente caricatura della democrazia e del suo delicato funzionamento e resto sconvolto da chi, vecchio del più vecchio, finge ora l'adorazione del "nuovismo", come l'imbarazzato Piero Fassino, sindaco di Torino, che deve difendere la manovra, mentre il mondo dei Comuni ribolle di preoccupazione come il mosto nei tini. Chissà se sono io - come il nano Brontolo che si lamenta per qualunque cosa - a non raccapezzarmi più e a ingrigirmi vedendo questo regionalismo (per non dire del mio caro federalismo) essere considerato un ferrovecchio nel nome di uno Stato efficace ed efficiente, tutto centrato su Roma, che appare non solo inesistente e grottesco, ma pure pericoloso per la tenuta delle Istituzioni. La Valle d'Aosta ha avuto nel Novecento un ruolo importante fra la nascita del pensiero regionalista e la discussione sul federalismo possibile: è un filone che ci appartiene e che rischia, per la povertà della "politique politicienne" impantanata nella sola amministrazione corrente, di far seccare questa sorgente di idee e di speranze, che dal passato ci ispira e ci ben sperare per il futuro. Pensiamoci.