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04 ott 2014

Università e speranze

di Luciano Caveri

Quando tuo figlio inizia l'Università è l'ennesimo punto e a capo della propria vita. Non manca molto alla secondogenita, mentre per il piccolino l'orizzonte è per ora la prima elementare. Quella classe che io cominciai a frequentare esattamente cinquant'anni fa. In un filmino mi sono rivisto quel 1° ottobre del 1964, quando con il mio grembiulino nero ostento divertimento, salendo sulla macchina di famiglia, che si chiamava "Anglia" ed era una "Ford" azzurrina. Certo il passare degli anni aumenta i propri fantasmi e questa storia dell'Università è cosa che ti fa rimuginare.

Ricordo cosa diceva mio papà e cioè che suo papà, vale a dire mio nonno, insisteva che tutti i suoi figli prendessero la laurea. Il cursus scolastico di nonno René, che era nato ad Aosta nel 1867, era stato esemplare: a dodici anni era entrato per gli studi classici nel "Convitto nazionale Maria Luigia" di Parma e poi si laureò a Torino in Giurisprudenza. Seguì la carriera prefettizia già di suo padre, il mio bisnonno. Così tutti i fratelli di mio papà si laurearono, con l'eccezione di una sorella: Séverin in giurisprudenza e fu avvocato e politico, Eugénie in lettere diventando insegnante, Mario in chimica, in ingegneria Emile ed Antoine (tutti e tre alla "Cogne") e mio papà in veterinaria. All'epoca laurearsi era una chiave di volta rispetto alla successiva professione. Immaginare, come oggi, che l'Università non sortisca un lavoro era un fatto davvero rarissimo. Oggi non è più così: esiste una disoccupazione diffusa e anche quella disoccupazione detta intellettuale che colpisce appunto chi è laureato. Il mio caso personale ha un senso diverso, perché ho scelto di laurearmi, per mio gusto e per quella linea familiare indicata (mio fratello è avvocato nel solco di una tradizione antica), dopo essere già diventato giornalista professionista. Questa incertezza dell'assioma fra laurea e lavoro ha messo in crisi l'Università italiana, dove già la tendenza a stare "parcheggiati" fuori corso era stata incrinata dai costi crescenti delle iscrizioni. Malgrado questo le Università italiane hanno moltiplicato facoltà e sedi ed oggi si disputano gli studenti in numero decrescente a colpi di vantaggi di vario genere. Esemplari sono gli spot radiofonici che impazzano, prima del periodo delle iscrizioni, sulle radio di tendenza, per non dire delle pubblicità dei facilitatori - tipo "Cepu" - che allettano gli studenti. Fantastico è lo spot che spiega come diventare avvocato in Italia, transitando dalla Spagna, aggirando il severo esame di Stato italiano. Cosa dire dunque al primogenito? Scherzosamente, parafrasando un celebre titolo di un libro, "Io speriamo che te la cavi": L'Università è uno strano mondo - lo dico avendo fatto per un breve periodo il professore "a contratto" a Torino - dove ti senti libero come un uccel di bosco, rispetto alla gabbietta delle scuole superiori, ma alla fine la gabbia arriva egualmente con le sessioni d'esame che devono essere sostenute. Ed oggi, oltre al generale sbarramento per l'ingresso ci sono poi i meccanismi di "stop", quando lo studente non supera quegli esami fondamentali che fanno appunto da sbarramento. Un tempo, quando ero in politico con posti di responsabilità, mi ero illuso di poter creare sistemi di orientamento scolastico, già per le superiori, ma a maggior ragione per l'Università in cui si riuscisse, nel limite del ragionevole, a programmare per tempo l'incrocio fra offerta e domanda del lavoro per instradare i giovani non solo sulla base di valutazioni rapide, di mode o di presunzioni personali su che cosa fare. Ammetto la sconfitta e noto che continua ad esserci molto azzardo, anche laddove il materiale umano - i giovani, nostro futuro - è fatto di numeri così piccoli da poter immaginare qualche forma di garbato pilotaggio. Chissà che un giorno non ci riesca.