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30 ago 2014

Macinare nuove memorie

di Luciano Caveri

Che i miei figli abbiano sequestrato "45 giri" vintage a casa della nonna è un'operazione mista fra il funebre e l'esoterico. La gran parte dei vinili, ormai inanimati per il peso dell'età in assenza di un giradischi o di una mangiadischi (chi li ha visti in azione sa di che cosa parlo, per i giovanissimi era un download analogico!), erano di mio fratello Alberto e risalgono ad un periodo a cavallo fra la fine degli anni Sessanta e l'inizio degli anni Settanta. Persino la firma di mio fratello dell'epoca, in particolare quella con uno sghiribizzo verso il basso che diventava un fiorellino, sa in tutta evidenza di naftalina. Evito titoli e interpreti per evitare l'aspetto lugubre del ricordo, quando sfiora la necrofilia. Non voglio finire come gli spettatori di certe trasmissioni televisive, nate all'insegna della memoria per un pubblico geriatrico e non solo per l'età anagrafica, che rischiano di alimentare la parte bella del proprio passato con operazioni di voyeurismo e di assoluta ripetitività. Io sono per il culto della memoria di qualunque genere, ma aborrisco la logica museale e passatista. Trovo per questo insopportabile chi ripete all'infinito le stesse cose - stessi luoghi, stesse amicizie, stessi gesti - perché mi viene la barba lunga a pensare ad un film già visto all'infinito, che riprende da capo, consumandosi sino allo sfinimento. Eppure c'è chi lo fa, alla ricerca di sicurezze e conformismo ed è come stare avvinghiati all'infinito al pupazzo della propria infanzia, come argutamente osservavano le strisce dei "Peanuts" di Charles Schulz con Linus e gli sfottò per la sua copertina. Certo che mi capita di tornare in posti evocatori. L'altro giorno sono finito al Crest, sopra Champoluc, uno dei comprensori sciistici più vecchi in Valle e la visione estiva, per me altrettanto evocativa di quella invernale, era percorsa da flash della memoria, fatti di luoghi e persone. Più passano gli anni e più capita di dover comparare questi ricordi alle modificazioni avvenute. Per dire lassù, se guardi l'ultima telecabina, questo confronto significa rievocare i primi ovetti anni Sessanta e il terribile incidente funiviario che seguii trent'anni fa da giovane cronista. Oppure una casa in mezzo ai prati, costruita e poi venduta da mio padre, dove passai momenti di festa indimenticabili e più avanti il pianoro dove piantai la tenda per passare una settimana un po' hippie. E ancora quel prato scosceso e roccioso che, in primavera con neve trasformata, diventava da ragazzo un muro da incubo da fare curva dopo curva fra mille attenzioni. Entri nell'unico bar e ricordi non solo come fosse l'antica disposizione del locale, ma rivedi i vecchi proprietari ormai scomparsi, i loro volti, la loro parlata nel patois di Ayas, fino all'evocazione di quella polenta concia, intrisa di burro e "Fontina", che ti torna fino alle papille gustative ingannate dal ricordo. Non c'è più lo skilift in basso, oggi sostituito dai soliti tappeti per bambini, ma è lì, a metà del prato, che a sette anni mi sono rotto la gamba e ricordo chi mi prese fra le braccia, mentre piangevo per il male. Eppure il segreto sta proprio nel guardare avanti, godendo di questi ricordi - e pure quelli dolorosi si trasfigurano nel presente per i lenitivi che il nostro cervello sa mettere - senza aver mai la tentazione di ritenere che ci si debba crogiolare a questo sole caldo di pensieri del passato. Forse un tempo verrà in cui questa rievocazione e la forza tranquilla della routine mi avvolgerà, ma oggi - senza mai disdegnare rapide incursioni sul filo del ricordo - voglio continuare ad accumulare fatti, circostanze, luoghi e persone, come si può fare con i libri nella rincorsa infinita fra i classici e le nuove uscite.