Utilizziamo i cookie per personalizzare i contenuti e analizzare il nostro traffico. Si prega di decidere se si è disposti ad accettare i cookie dal nostro sito Web.
28 giu 2014

La sindrome di Caporetto

di Luciano Caveri

Oggi giornata di lutto e di sedute psicanalitiche e di confessionali: "Brasile, addio!" Gli Azzurri escono dal Mondiale carioca e l'argomento in effetti si presta a colossali prese per il naso della stampa internazionale e a "stracciarsi le vesti" di vario genere nella "politica" interna, a commento dei fatti avvenuti in diretta televisiva. Ieri sera i "social", a chiusura di una partita noiosa come non mai, grondavano di battute al vetriolo, che sarebbero rimaste inespresse se solo fosse arrivato un salvifico straccio di pareggio all'ultimo secondo del recupero. Questo per dire di un velo di ipocrisia che avvolge tutti, perché a mutare l'umore basta poco nel commentare lo sport che ha come suo motto principale l'assunto sempre buono per tutte le stagioni: "la palla è rotonda". Lo ha cantato anche Mina con il brano tricolore, che avrebbe dovuto accompagnare l'Italia al successo, risultando invece un'affermazione beffarda e pure un pizzico menagrama. Se non fosse che siamo ormai - non ancora per l’Italia che entrò in guerra un anno dopo - nel flusso della rievocazione degli altri Paesi belligeranti del secolo trascorso dallo scoppio della Prima guerra mondiale, allora avremmo potuto dire che questa partita di calcio, Italia - Uruguay, era avvolta, sin da subito, da una sorta di “sindrome di Caporetto”. Mi riferisco alla famosa sconfitta dell’esercito italiano sull’Isonzo nella Grande Guerra, che fa sì che la parola “Caporetto” sia diventata sinonimo - spesso improvvido pensando alla drammaticità di quell'evento bellico - di una qualunque sconfitta disastrosa. La “sindrome” si riferisce all’altro vizio italiano dello scaricabarile, cioè della mancata assunzione di responsabilità - come per quell'avvenimento storico - da parte di chi aveva inanellato un errore dietro l’altro sino alla “sconfitta perfetta". Aleggia la famosa e fredda frase di Winston Churchill: «Gli Italiani perdono le guerre come se fossero partite di calcio e le partite di calcio come se fossero guerre». Insomma: un misto fra serio e faceto, tra tragedia e commedia. Quando il riso e il pianto si inseguono. Ma va detto, nel caso in esame, che lo strapagato commissario tecnico della Nazionale, Cesare Prandelli, le dimissioni le ha date, in verità dopo aver proposto soluzioni tecniche stampate (parla il "ct" che c'è in me...). Annuncia dimissioni anche l'ormai logoro presidente di "Federcalcio", Giancarlo Abete, ma tutto il resto del mondo del calcio italiano "che conta" resta per ora lì attaccato al cadreghino, a dispetto non tanto dell'eliminazione ai Mondiali, quanto di quel verminaio che è da anni lo sport nazionale per eccellenza. «Bisogna saper perdere, non sempre si può vincere»: così recitava - in modo ben più sbarazzino - una celebre canzone di Lucio Dalla, cantata da Caterina Caselli e dal gruppo dei "The Rokes" (cantante il ben noto David Norman Shapiro detto "Shel"). Per cui prendiamola così, ma speriamo che si dia fuoco alle polveri, per cambiare.