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29 mag 2014

Quando il tu diventa te

di Luciano Caveri

Dobbiamo prendere atto, con vivo dolore, della lenta e inesorabile scomparsa del «tu». Tanto che, dopo la mesta cerimonia di sepoltura, potremmo dire che d’ora in poi - quando vorremo rendere più amichevole il rapporto con qualcuno - potremmo con serenità proporre: «diamoci del te». Anche se, già ad orecchio, si capisce che qualcosa non funziona nell'espressione novellata. Trovo, non firmato, sul sito del "Dizionario del Corriere della Sera" questa spiegazione. La domanda era: «E' corretto dire hai ragione te, vieni anche te?». La risposta è di quelle che non lasciano adito a contestazioni: «Dubbio presto risolto: bisogna dare del "tu", non del "te", dire dunque «hai ragione tu», «vieni anche tu». La grammatica insegna che il pronome personale "tu" è soggetto, mentre "te" si usa nei complementi. Dunque diremo «tu (soggetto) hai ragione» e diremo anche «io (soggetto) partirò con te (complemento di compagnia)». Ma c'è un caso in cui "te" usato come soggetto sembra ormai inestirpabile nell'uso. È il caso di "io e te": «Io e te partiremo». Mentre diciamo abitualmente «tu ed io partiremo», non ci passa per la mente di dire «io e tu partiremo», ma «io e te». Perché mai? Perché in questo caso, seppure usato come soggetto, il "te" sembra quasi assumere il senso di un complemento di compagnia, come se dicessimo «io con te (complemento di compagnia) partirò». Se poi vogliamo darci delle arie, diciamo che si tratta di un "solecismo", che in "grammatichese" vuol dire un "errore", che si è imposto nell'uso conquistando la dignità di "eccezione alla regola"». Simpatica la nota aggiunta in basso: «Detto fra parentesi, "solecismo" viene dal greco antico: nella città di Soli, in Cilicia, si parlava un pessimo greco, pieno di errori». Ci sono, nel cimitero degli scomparsi, fenomeni ben più significativi: non mi dilungo sulla morte del congiuntivo, perché bastano alcune frasi fulminanti del giornalista Beppe Severgnini: «La crisi del congiuntivo non deriva dalla pigrizia, ma dall'eccesso di certezze. L'affermazione «Speravo che portavi il gelato» non è solo brutta: è arrogante («Come si permette, questo qui, di venire a cena senza portare il gelato?»). La frase «Speravo che portassi il gelato» è invece il risultato di una piccola illusione, cui segue una delusione contenuta e filosofica. Accade, nella vita, che la gente dimentichi di portare il gelato. La crisi del congiuntivo - ripeto - ha un'origine chiara: pochi oggi pensano, credono e ritengono; tutti sanno e affermano. L'assenza di dubbio è una caratteristica della nuova società italiana. A furia di sentirci dire che siamo belli, giusti e simpatici, abbiamo finito per crederci». Intendiamoci. Non sono un cultore sperticato della lingua, ma trovo che certi "tic" linguistici, che si diffondono in modo virale, siano sempre da prendere con le pinze. Basta ricordare l'apparire (e per fortuna lo scomparire) dell’uso ossessivo del "cioè" e dell’imbarazzante "attimino". Ma oggi ci sono ancora sopravvivenze tipo «come dire?» o il roccioso «assolutamente», cui sembra fare il verso l'altrettanto granitico «esatto!». Terribile, specie nei discorsi pubblici, è l'uso, che crea un vuoto pneumatico, del «niente…», per non dire della morte improvvisa degli elenchi con un vago «quant'altro». In Valle, ma non solo, deborda poi un uso di «quello che», posto ormai come bolle di sapone per legare le frasi, che si allungano in modo irresistibile, creando delle matasse che risultano inestricabili per chi ascolti. Ma temo che in certi casi, anche per chi, una volta sbobinato con il suo intervento messo nero su bianco, risulti davvero espressivo come il celebre Alberto Tomba, non proprio noto per la qualità della sua loquela, finisce per contare di più il tono che il contenuto. Con buona pace di chi, come me, barbotta quando non capisce il senso.