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01 mag 2014

Il "redde rationem"

di Luciano Caveri

Sono sempre stato incuriosito da chi esibisca una rocciosa sicurezza, attraverso apposite lezioncine morali, nel mostrare come si deve vivere agli altri. Anche se, come preferenza personale, mi sono sempre piaciuti di più quelli che ci pensano un attimo prima di sentenziare e questo non vuol dire essere in automatico "cacadubbi" o "sor tentenna", ma avere la cautela necessaria. Naturalmente mi riferisco a chi sentenzia in buona fede e stupisce per la sicumera, perché c'è anche chi non lo è, e dice le cose per interesse personale, spesso senza avere né lo spessore culturale e neppure il comportamento integerrimo per farlo. Ma quella è una categoria, neppure troppo da evocare, per l'evidente ribrezzo che crea. In quel caso, va opportunamente adoperata l'espressione "marchetta", di cui spesso si è persa l'origine esatta. Si trattava del contrassegno che, nelle "case di tolleranza" (popolarmente "casini" o "bordelli"), le prostitute ricevevano per ogni prestazione erotica ai fini del conteggio della retribuzione. Penso sia chiara l'evocazione storica e di costume, sopravvissuta alla legge Merlin che nel 1958 chiuse i postriboli, perché le "marchette" - intese come prestazioni a pagamento - sono rimaste, anche applicate a professioni intellettuali che possono essere foraggiate in vario modo. Chiunque abbia fatto politica, ha assistito, di tanto in tanto, all'uso spregiudicato della vecchia espressione in latino medioevale "mors tua, vita mea". Nel senso che c'è sempre qualcuno che si fa largo senza scrupoli nella propria attività in politica, profittando delle difficoltà altrui. Poi naturalmente l'uso del termine "morte" è un'estremizzazione macabra ma scherzosa, perché nessuno - a meno che non si tratti di un delinquente - può spingersi sino al desiderio di un trapasso vero e proprio. Penso che, almeno in Valle d'Aosta, malgrado inquietanti infiltrazioni mafiose, ci si riferisca alla legittima speranza di una "morte politica". Chi si stupisce di un certo cinismo lo fa in malafede. Ma soprattutto chi trasforma in vittimismo le circostanze avverse fa finta di vivere nell'incantato mondo delle fiabe e gira la frittata. "Fare la vittima" è un modo straordinario per sfuggire alle proprie responsabilità. C'è chi usa il meccanismo con astuzia e chi con candore: fatto sta che ho conosciuto persone che, poste di fronte a propri comportamenti sbagliati e forieri di guai, ha sempre negato ogni responsabilità, giocando a quello sport molto italiano che è lo "scaricabarile". Ci sono sempre o un altro o altri da indicare come colpevoli. Prendersi carico di fatti e circostanze, compresi errori e fallimenti, è la strada per essere credibili, specie nella vita pubblica. Nascondere a sé stessi e agli altri allontana solo il giorno del "redde rationem", che è poi traducibile nel più comprensibile "rendi conto". L'espressione viene da un brano del "Vangelo" di Luca, dove si racconta di un ricco possidente che aveva affidato l'amministrazione e la gestione dei suoi beni a un terzo, dimostratosi inaffidabile e fallimentare. Perciò il proprietario dei beni lo aveva chiamato dicendogli: «redde rationem villicationis tuae: iam enim non poteris villicare», ovvero «rendimi conto della tua amministrazione, perché non potrai più amministrare». La parabola vale come ammonimento per il Regno dei Cieli, ma più prosaicamente anche per la vita terrena.