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26 mar 2014

Per una RAI decentrata

di Luciano Caveri

Capisco che non si può chiedere all'oste se il vino è buono e dunque che io scriva in difesa dell’esistenza delle sedi regionali della "Rai", dove lavoro, potrebbe apparire pacifico. L'interlocutore, per ora, non è ancora il Governo vero e proprio, ma uno dei possibili "tagli" indicati nel tomo corposo della feroce "spending review". Quindi, per ora, possiamo dire che è solo una tentazione... In realtà, al di là dell'autodifesa e del cahier de doléances possibile, penso ci sia dell'altro. Appartengo a una generazione fortunata, avendo prima vissuto - lavorandoci sin da giovanissimo - la nascita del sistema radiotelevisivo privato, in contrapposizione alla corazzata del servizio pubblico e poi, saltando dall'altra parte della barricata, ho compartecipato alla nascita di quel "decentramento ideativo e produttivo", che era alla base della riforma della "Rai" del 1975 e che si concretizzò con la nascita della "Terza Rete" nel 1979. Rete che sarebbe dovuta essere un mosaico delle Regioni, ma di fatto è poi diventata una rete nazionale a tutti gli effetti, così come non è mai nata purtroppo una radiofonia regionale vera e propria. Questa scelta di decentramento di quarant'anni fa (maledizione come passa il tempo!) non era un "capriccio regionalista", ma la constatazione che dove esista un servizio pubblico radiotelevisivo - che sia la Francia giacobina o la Germania federalista, come due lati opposti - la presenza di trasmissioni radio e televisive locali, concepite e realizzate in loco (sarebbe sperabile con una forte presenza di professionalità locali a garanzia della conoscenza della realtà in cui operano), sono un caposaldo dell'informazione. In Italia, invece, per molti questa sembra una scelta improduttiva e inutile, cui pare contrapporsi - in linea con i testi finora emersi di riforma del regionalismo nella Costituzione - un modello centralista e macroregionale, che è sbagliato e offensivo. Oltretutto la ramificazione locale è una forte giustificazione del mantenimento del canone televisivo di fronte alle logiche della concorrenza e lo sono a maggior ragione le trasmissioni a vantaggio delle minoranze linguistiche, autentico fiore all'occhiello. Il "caso valdostano" poi è ancora diverso, visto il ruolo decisivo che gioca la "Rai" nel settore informativo e della programmazione in radio e in televisione. Non si tratta solo di sbandierare dei dati di ascolto che non hanno eguali, ma soprattutto di notare come in un panorama informativo in grande movimento, fra crisi della carta stampata e difficoltà del settore radiotelevisivo (le televisioni private sono di fatto inesistenti), la "Rai Valle d'Aosta" abbia assunto una centralità assoluta. Mentre nel Tirolo del Sud questa constatazione ha portato ad un impegno diretto della Provincia autonoma, nel quadro di una logica di rafforzamento autonomistico e statutario e questo sta fruttando assunzioni locali e aumento delle ore di trasmissione, la Valle d’Aosta resta "appesa" alle previsioni, come scudo protettivo, della sola vecchia Convenzione sulla lingua francese con la Presidenza del Consiglio, che ha come orizzonte attuale il 2015-2016. Chissà, in questi anni di così grandi cambiamenti o presunti tali, che cosa ci aspetterà. Io penso che un servizio pubblico radiotelevisivo più forte sarebbe una componente essenziale per la Valle d'Aosta.