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19 dic 2013

Quando mangiare è "social"

di Luciano Caveri

I valdostani della bassa Valle, cui appartengo, pur essendo anche un po' aostano, visto che i Caveri "valdostanizzati" si sono installati ad Aosta ormai da un secolo mezzo, sentono forte l'influsso del vicino Piemonte. Ed è il caso del tema ameno di oggi: quando uno ne ha scatole piene delle vicende dell'Italia di oggi, può cercare soccorso a tavola. Fatemi partire da distante, esattamente dalle terre occitane e dal libro tratto dal libro "L'Acciuga nel Piatto" di Diego Crestani e Roberto Beltramo, edito da "I Libri della Bussola". Eccone un brano: "Ci fu un tempo, ormai ignoto ai più e da molti dimenticato, in cui gli abitanti delle valli alpine, nella brutta stagione, erano costretti ad abbandonare la loro casa per andare a cercare una fonte di guadagno altrove. Era un'emigrazione che sovente non puntava ad aumentare le ricchezze della famiglia, ma semplicemente a non gravare sul consumo delle magre risorse disponibili. Si partiva ancora bambini e ognuno s'ingegnava a trovare un lavoro, magari un mestiere peculiare; alcuni si affidavano alla forza fisica, altri all'ingegno e all'intraprendenza. Gli acciugai ("anchoiers" in occitano, "anciuè" in piemontese, "anciuat" in lombardo) della Valle Maira…, a fine estate, terminati i lavori nei campi, scendevano al piano per vendere acciughe e pesce conservato". Ma perché nasce questo commercio? Dicono i due autori: "I più ritengono che tutto abbia avuto origine dal commercio del sale, sul quale gravavano alti dazi: qualche furbacchione pensò di riempire in parte una botte di sale ponendovi sopra, per occultarlo agli occhi dei gabellieri, uno strato di acciughe salate. Allo scoprire poi che la vendita di quelle acciughe procurava ugualmente un buon guadagno, si dedicò al nuovo commercio meno rischioso...". Chiaro di che cosa parlo? Il giornalista Roberto Fiori ha pubblicato un bellissimo articolo su "La Stampa", che parte dal presente: "E' senza dubbio un piatto "social". Esalta la convivialità e, per quanto sia definito povero, è invece ricco di umanità e storia, gusto e passione. Chi lo mangia partecipa a una tradizione collettiva molto antica e molto piemontese, senza temere poi l'afrore dell'aglio che, inevitabilmente, per almeno 24 ore terrà a debita distanza chi non avrà condiviso il piacere di questo rito gastronomico che sta agli antipodi della nouvelle cuisine". Ormai il tema è evidente e la sintesi del collega del quotidiano piemontese è perfetta: "Stiamo parlando della Bagna Cauda, o "Caôda" per i puristi della grammatica piemontese. Una ricetta semplice e gagliarda, che partendo da una semplice salsa calda di aglio, olio e acciughe in cui si intingono le verdure crude autunnali come peperone, cardo bianco, cavolo e topinambur, si dilata fino a svelare un "sistema gastronomico" che coinvolge la cultura conviviale e le strutture portanti dell’alimentazione quotidiana contadina". Io questo piatto prelibato lo gusto, con la giusta moderazione, nel cuore dell'inverno, tipo ieri sera, quel giorno di Santa Lucia un tempo "giorno più corto che ci sia". Oggi, a differenza di ieri sera e per quanto si trattasse di una versione non troppo perniciosa, limito la mia socialità per rispetto per il prossimo...