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22 nov 2013

«Tu quoque...»

di Luciano Caveri

Immagino che tutti conoscano la frasetta storica: «Tu quoque, Brute, fili mi». L'espressione latina, che significa «Anche tu Bruto, figlio mio», viene ormai usata - nel latinorum della nostra quotidianità - con un intento scherzoso, specie nella formula accorciata «tu quoque...», che è uno sfottò da compagnia. La frase dovrebbe - il condizionale è d'obbligo perché non ci sono... registrazioni - essere stata pronunciata, prima di morire, da Giulio Cesare, vittima della congiura delle "Idi di marzo" del 44 a.C., riconoscendo tra i congiurati il suo caro amico Marco Giulio Bruto. Lo storico Svetonio, a complicare le cose, afferma che Giulio Cesare pronunciò questa frase in greco: «και συ τεκνον» («anche tu, figlio»). Ma bisogna proprio evidenziare che non bisogna, che sia latino o greco, farsi depistare dal termine "figlio". Giusto, direbbe Silvio Berlusconi, che ha detto di sentire Angelino Alfano come un figlio e di non aver dormito di notte per il suo "tradimento", almeno avvenuto senza spargimento di sangue. E' comunque, in questo caso, una sorta di parricidio politico. Chi si stupisce dei fatti penso sia distratto: erano mesi ormai che la rottura era nell'aria. I "governativi" volevano, da una parte, mantenere il ruolo nell'Esecutivo e, dall'altra, voltar pagina con il vecchio leader. Anche se, questo è il secondo punto, non è del tutto riuscito questo passaggio, perché i transfughi non hanno voluto affondare il colpo e la scissione - a cavallo fra Popolo della Libertà e Forza Italia - nasce sotto due strane stelle. Anzitutto il bislacco discorso dei fuoriusciti, quando tessono lodi per Berlusconi, parlandone - per così dire - da vivo. Per non dire del futuro accordo per elezioni prossime venture. Sembra quando da ragazzini ci si lasciava, con gran dramma, con la fidanzatina, e la sera dopo le si telefona per uscire assieme. Ma dai! Per esperienza personale, devo dire che tagliare i rapporti con una figura carismatica può diventare una necessità, quando il mito crolla per scelte non condivise, per visioni diverse o per cose ancora peggiori, che in parte si scrivono nelle memorie. Si tratta di una scelta importante e dunque capisco l'euforia di Alfano e dei suoi, mentre non capisco certi loro tentennamenti, che svuotano il gesto liberatorio. Quando ci vuole ci vuole e bisogna tirare dritti, sapendo che in certe situazioni non verranno fatti sconti e chi se ne va rischia di essere inseguito dalle maldicenze. Ma - ne sono persuaso e parlo per me - il tempo aggiusterà tante cose: bisogna pazientare e mai guardarsi indietro. Chi lo fa, finisce come nel controverso episodio biblico, mentre bruciano Sodoma e Gomorra, quando "la moglie di Lot si voltò indietro a guardare e divenne una statua di sale" (Genesi 19,26). Chi si gira a guardare rischia di "restare di sale", perché dimostra nostalgie e incertezze, mentre bisogna sempre guardare avanti e non avere paura dell'avvenire. E' di questi giorni il ricordo del mezzo secolo trascorso dal delitto di Dallas, ancora avvolto da misteri, in cui morì il giovane presidente americano, John Fitzgerald Kennedy. Ricordo - mio raro caso di memoria da piccolo - la notizia che arrivò da una edizione del giornale radio: avevo cinque anni e vidi i miei genitori scossi per quella simpatia diffusa verso il presidente americano, simbolo di quegli anni. C'è una sua frase che gira di questi tempi e che, meglio di altro, disegna lo scenario futuro. Diceva Kennedy: «Scritta in cinese la parola crisi è composta di due caratteri. Uno rappresenta il pericolo e l'altro rappresenta l'opportunità». Bisogna crederci.