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03 set 2013

Notre jardin

di Luciano Caveri

In "Candide, ou l'Optimisme", un "conte philosophique", Voltaire conclude con una frase di quelle che appassionano gli interpreti. Si tratta del famoso: "Il faut cultiver notre jardin". Trovo, in un sito francese, una bella frase di Hannah Arendt, autrice acuta, che così spiega la metafora: "La culture serait à l'esprit ce que l’agriculture est à la terre".
Illuminante è anche una frase che nel 1773 scrive lo stesso Voltaire a D'Alembert: "Si j'ai encore quelque temps à vivre, je le passerai à cultiver mon jardin comme Candide". Trovo che sia importante che questo appello, che crea un parallelo fra la concretezza dell'agricoltura e quella della cultura, ci consenta una lettura contro una terribile tentazione: quella che la definizione "notre jardin" assuma una logica di isolamento umano e politico. Guardare ai propri interessi non può mai significare sottrarsi a dimensioni più vaste: penso al contesto mondiale o a quello europeo, che mai vanno considerate come dimensioni così vaste da sfuggire ai nostri interessi. Diventerebbe cioè quello che veniva chiamato, usando il latino, un "hortus conclusus", cioè un orto recintato, come dimensione esclusivamente privata e intima della propria vita. Leggo in questi giorni molte cose sulla Siria, che è uno storia ormai infinita di dolore e violenze (e penso anche al povero giornalista de "La Stampa", Domenico Quirico, rapito nell'aprile scorso, mentre lavorava in quel Paese). Avevo trovato utile, giorni fa, l'incipit di un editoriale sul "Le Nouvel Observateur" di Laurent Jauffrin: "L'absence de riposte des Occidentaux face à l'utilisation d'armes chimiques par le régime d'Assad délivrerait à tous les dictateurs de la terre un passeport pour la barbarie. Le crime de Bachar al-Assad change tout. Cette fois, l'intervention occidentale n'est pas une hypothèse, une tentation hasardeuse ou un impératif moral plus ou moins justifié. C'est une évidence". Ma ecco il punto centrale nel ragionamento: "Saddam Hussein mis à part, aucun pays n'a fait usage de l'arme chimique au combat depuis près d'un siècle. Une convention internationale en bannit l'usage et c'est l'une des rares à être respectées. On dira que la Syrie ne l'a pas signée. Mais justement : peut-on, si l'on souhaite contenir un tant soit peu la violence des Etats, tolérer sans rien faire une telle exception, qui contredit l'accord tacite de toutes les nations?". La tesi interventista, che ha perso colpi dopo il "no" del Parlamento inglese: è espressa con evidenza, ma a me - che sull'interventismo nutro gran dubbi, pensando a come l'Occidente si è impegolato negli ultimi anni in diversi scenari di guerra - interessa semmai il filo del ragionamento, così come porta, alla fine, all'ultimo interrogativo. Nella sostanza: l'uso dei gas - se accertato davvero, sia chiaro - rompe un tabù e se la comunità internazionale (definizione astratta un po' flou, lo ammetto) facesse finta di niente assicurerebbe un passe-partout di orrore ai dittatori di ogni genere sparsi nel mondo. Agire in qualche modo è dunque necessario e potrebbero essere misure vere e serie di embargo e di isolamento per il regime siriano. Certo è che si è visto, per l'ennesima volta, come il pesi il gioco dei veti incrociati nel Consiglio di Sicurezza dell'ONU e dunque come il diritto internazionale resti fondato sulle sabbie mobili. Ogni "jardin", se troppo chiuso, non servirà mai per coltivare una visione d'insieme - solidaristica, a favore dei popoli che subiscono ingiustizie e sofferenze - tradendo, in fondo, quella speranza di un mondo davvero migliore.