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20 ago 2013

Lassù sull'alpeggio

di Luciano Caveri

In alta montagna, quando capita di incontrare una mandria di bovini al pascolo, il tempo potrebbe essere fermo da secoli. Tolte le strade poderali, le auto che le percorrono, i recinti elettrificati e altri segni della modernità, come gli aerei che sfrecciano nel cielo con le loro scie, dal profondo della nostra storia spunta l'allevamento del bestiame, come evoluzione - grazie all'addomesticamento - della caccia. Quando il turismo di massa non raggiungeva ancora le nostre montagne, prima con l'alpinismo poi con il turismo estivo (anche per la salute e il termalismo) e poi con il grande sviluppo invernale inseguendo lo sci, le "terre alte" erano in effetti il regno dell'allevamento, di un'agricoltura di sussistenza, dei cacciatori eredi di antichissime gesta e di chi attraversava i colli per pellegrinaggio, commercio o guerra. Per questo trovo - alla ricerca di radici profonde - che l'iniziativa "Alpages Ouverts" dell'Arev ("Association Régionale Eleveurs Valdôtains"), che dal 2000 organizza visite guidate agli alpeggi, sia una bella idea. Da "Treccani" ricordo cosa si intenda per alpeggio: "Esercizio del pascolo del bestiame in montagna, da quote di circa 1000 metri sino a 2300 - 2500 metri, denominato anche "monticazione" o "estatatura". Si effettua da fine maggio a metà settembre, ma ha durata diversa secondo l'altitudine, l'esposizione, la giacitura e la vegetazione dei pascoli (minimo due mesi: luglio ed agosto). E' una pratica molto antica, che risponde a necessità economiche e tecniche a un tempo, sia perché permette di sfruttare la produzione foraggera di alta montagna, inutilizzabile in altro modo, sia perché irrobustisce gli animali". Nel suo sito l'Arev "fotografa" il fenomeno, che da noi prevede passaggi intermedi sino ad arrivare alla "montagne", così definita non a caso dai valdostani, quando le vette erano improduttive: "La superficie degli alpeggi valdostani è di circa 75.000 ettari. Vi sono in tutto 281 alpeggi, 217 alpeggi ospitano vacche da latte; queste montagne producono "Fontina" oppure conferiscono il latte al caseificio a valle. Sono 64 gli alpeggi destinati a pascolo per bestiame improduttivo (manzi). La media generale di permanenza in alpeggio è di 115 giorni". Immagino che il dato sia mobile e vadano aggiunti anche alpeggi di ovini e caprini. Visitare gli alpeggi ha una duplice valenza. E' interessante per tutti quei valdostani, che sono vittime di una sorta di analfabetismo di ritorno verso usi e tradizioni locali. E' bello per i turisti scoprire questo mondo che è un caposaldo della civiltà alpina. Resta inteso che molto ruota attorno al formaggio più noto, la "Fontina". Visitare un alpeggio consente di capire che - a fronte di una "Fontina" di qualità per la bontà del latte e la capacità di ben lavorarlo - non deve stupire che la "Fontina" possa avere gusti diversi al palato, rispetto ai formaggi standardizzati di produzione industriale. Questo non vuol dire che sia accettabile la presenza di formaggio con gusto non all'altezza del prodotto o che non si debba esplorare la strada di due denominazioni "alpeggio" e "pianura", che chiarirebbe meglio l'origine nel quadro europeo della "Dop" (Denominazione d'origine protetta), che lega indissolubilmente la fontina al nostro territorio. E non mi sento di esclude neppure - ma so che c'è lo fa, non usando il termine "Fontina", perché il disciplinare di produzione non lo consente - la possibilità, cui ho sempre pensato per la difficoltà derivanti da forme molto grandi e dunque difficili da porzionare, di avere formaggi più piccoli rispetto agli 8 - 12 chili attuali con il diametro di 43 centimetri, che è molto grande. Sono pensieri in libertà, come le mandrie di mucche di razza valdostana che, in queste settimane estive, sotto l'occhio dei pastori e dei loro cani, presidiano le distese erbose al limitare delle cime delle nostre montagne.