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20 apr 2013

L'orrore a Boston

di Luciano Caveri

Ormai nella gerarchia di mezzi di d'informazione svetta, come velocità, "Twitter". Così è arrivata anche a me, in una serena serata domestica, la notizia delle esplosioni alla maratona di Boston. E' stata poi la televisione a mostrarne le immagini, quando ancora la gravità dei fatti non appariva nella sua concreta portata, ma erano proprio le riprese dei luoghi ad essere più espressive delle scarne note delle agenzie. Nella notte, poi, la gravità dell'evento è apparsa in tutta la sua evidenza, anche se la matrice dell'attentato, costruito per colpire a casaccio e con crudeltà gli sportivi all'arrivo di una maratona famosa e di massa, non è ancora nota. Ma lo sarà presto: chi colpisce così vuole farlo sapere, che sia un'organizzazione terroristica o un matto isolato. E mentre l'Italia è il Paese dei casi insoluti, dall'omicidio alla strage, negli Stati Uniti la promessa di Barack Obama di punire i colpevoli ha ampi margini di realizzarsi davvero. Resta l'ennesimo sconcerto di fronte alla stupidità della violenza, che scuote questo nostro mondo e rende insicure le nostre vite. Ci sono delle volte in cui la semplice visione di un telegiornale appare come un'intollerabile serie di nefandezze, cui vien voglia di reagire spegnendo il televisore, nell'illusione infantile di far scomparire certi fatti. Ed invece il meccanismo dell'informazione il cui "plot" sembra essere dappertutto e in modo crescente la cronaca nera e le forme di violenza più efferate ti travolge ovunque e non esiste alternativa, se non la clausura o l'eremitaggio. Ogni tanto, come tutti, mi balocco di un posto ideale, dove sia possibile "staccare la spina" dagli orrori del mondo e mettere a riparo noi è i nostri cari. Purtroppo è un luogo che non c'è. Ricordo da bambino, quando andavo in Svizzera, quanto mi colpisse quella storia dei rifugi antiatomici sotto le case e quanto - in quell'epoca di guerra fredda in cui il rischio dell'olocausto nucleare era dietro l'angolo - mi sentissi indifeso. Mio papà, dissacratore per eccellenza, se la rideva e allora non sapevo di quanto, nella sua esperienza di internamento nei campi di sterminio e di lavoro in Germania, avesse fatto il callo a certa violenza e come la sua disillusione, in forma di sfottò per i bunker elvetici, fosse una lezione di vita.