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12 mar 2013

La tragedia del Broad Peak

di Luciano Caveri

La prima notizia è stata quella del 5 marzo scorso e suonava più o meno così: "Gli alpinisti polacchi Maciej Berbeka, Adam Bielecki, Tomasz Kowalski e Artur Malek, oggi, alle 17.30 - 18.00 (ora locale), hanno raggiunto la vetta del Broad Peak (8.051 metri), centrando così la prima salita invernale della dodicesima montagna della terra. Attualmente non ci sono ulteriori notizie, e si presume che i quattro alpinisti polacchi siano ora in discesa verso il loro campo 4 a 7.400 metri". L'ultima notizia è di ieri sera ed è il drammatico epilogo a tre giorni di distanza: "Krzysztof Wielicki, leader della spedizione invernale polacca della "Polish Mountaineering Association" al Broad Peak, pochi minuti fa sul sito della spedizione ha pubblicato un comunicato in cui dichiara che non c'è più alcuna speranza di ritrovare vivi Maciej Berbeka e Tomasz Kowalski, i due alpinisti dispersi da mercoledì scorso dopo che avevano raggiunto la vetta della dodicesima montagna più alta della terra". Per la Polonia - come mi ha confermato poche ore fa la mia cara amica polacca Marta - si tratta di un lutto nazionale, visto che proprio i polacchi si sono distinti in questi anni come scalatori fortissimi, specializzati nelle rischiose prime invernali. Per un certo periodo della mia vita mi ero appassionato alla storia dell'alpinismo e lì, dagli albori agli anni più recenti, c'era nei fatti la conferma di come la gioia e il dolore siano per chi sfida l'alta montagna due facce della stessa medaglia. Il pericolo incombe sempre e comunque e credo che chiunque in Valle d'Aosta abbia perso in montagna qualche amico. Sul sito planetmountain.com il forte alpinista bergamasco Simone Moro, che in prima invernale ha scalato tre "ottomila" (lo Shisha Pangma nel 2005, il Makalu nel 2009 e il Gasherbrum II nel 2011) ha scritto: «L'alpinismo invernale sulle cime più alte del pianeta rimane sempre e solo una libera scelta, molto più sconveniente di quanto non si pensi, dove si è soli anche se si è in dieci, dove si è lontani da tutti anche se si hanno tutti i telefoni satellitari del mondo, dove si è indifesi anche con tutta la tecnologia ed i materiali più sofisticati. Nessuno può fare nulla, proprio nulla d’inverno e il bel tempo si concede due o tre volte nell'arco dell’intera stagione. Pochi giorni in tre mesi, in cui ci si ritrova prigionieri, per scelta, dei propri sogni. Si è come in un mare in tempesta, con onde alte trenta metri, nel mezzo dell'oceano. Nessuno può fare niente per te e solo tu puoi gestire il peso e le dinamiche della tua scelta, quella che in quel posto ti ci ha portato. Ogni decisione che prendi ricade su di te, solo su di te». E aggiunge, a difesa della rischiosità di certe imprese di cui lui stesso è stato protagonista: «L'uomo vuol essere laddove il pensiero lo spinge. Sulla luna, su Marte, su Venere, negli oceani, nelle grotte, negli abissi, nei deserti e sulle cime. Ebbene è questo l'alpinismo invernale. Voler essere e andare dove l'uomo non è ancora riuscito, ed è per questo che anche il Nanga Parbat ed anche il K2 verranno tentati ed un giorno saliti d'inverno. Questa pulsione non si muove su dinamiche di convenienza, di utilità o livello di pericolo. Nessuno vuole o pensa di cambiare il mondo scalando d'inverno, esattamente come non lo pensava chi poi, in realtà, il mondo lo ha cambiato veramente». Al di là del pizzico di retorica che spesso finisce per essere presente negli scritti e nelle parole di molti alpinisti di grande personalità, credo che la verità nuda e cruda emerga. Nessuno ti obbliga a rischiare la vita su quelle vette dove un contrattempo suona come un verdetto di morte, ma la sfida alla montagna contiene - a certi livelli di eccellenza - questo rischio calcolato e bisogna essere rispettosi di certe scelte. Si chiama libero arbitrio.