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12 feb 2013

Il tamburo della retorica

di Luciano Caveri

"Santi, poeti e navigatori". E' la celebre definizione degli italiani di epoca fascista, che finisce per essere usata ancora oggi con un qual certo compiacimento. A dir la verità, una scritta piu complessa figura sul "Palazzo della Civiltà del Lavoro", noto come "Colosseo Quadrato", perché ispirato al più celebre e antico anfiteatro, che si trova nel quartiere dell'"Eur" a Roma, una delle rare presenze organiche dell'architettura del Novecento. A me, spogliata dalla retorica mussoliniana, questo insieme di palazzi, strade e piazze ha un effetto di straniamento che non mi spiace neppure, ma la dicitura citata fa venire il latte ai gomiti: "un popolo di poeti di artisti di eroi di santi di pensatori di scienziati di navigatori di trasmigratori". Mah! Oggi c'è da chiedersi che cosa incarnasse questa esaltazione, se non il fosco e grottesco autocompiacimento caratteristico di ogni dittatura. A me le dittature, piccole o grandi, tenui o feroci, da operetta o da tragedia greca - segno di una gamma non contenibile in una categoria unica - fanno ribrezzo. Ci pensavo oggi che vedo scorrere, nella competizione valdostana per il Parlamento, un eccesso di retorica, nel suo senso dispregiativo, che da "Zanichelli" così si esplicita: "modo di scrivere o di parlare pieno di effetti esteriori o di ampollosità, ma privo di autentico impegno intellettuale e di contenuti". Intendiamoci: non si può pensare che in comizi e programmi manchino elementi emotivi e sentimentali, che farebbero della politica un qualcosa di arido. Personalmente quando cominciai a far politica feci a me stesso una promessa, quella di escludere il "politichese" dai miei discorsi. Ogni tanto, per evitarlo, devo fare mente locale, perché il rischio di farsi prendere dal gergo, infarcito di termini giuridici e di espressioni singolari, può prendere il sopravvento e scavare un fossato fra te e chi ti ascolta o ti legge. Ma il peggio è applicare il modello dei "santi, poeti e navigatori", opportunamente corretto alla bisogna, alla "valdostanità": dal rude montanaro alla ridente località, dal cuore che palpita al campanile avito, da richiami di maniera al passato al sol dell'avvenire in salsa alla Fontina. Orpelli di vario genere, che si tramandano nella politica locale e che finiscono per fare una vera e propria caricatura che gronda di banalità e ripetizioni. Ricordo quel l'ormai scomparso esponente sardista che, quando trovava che l'uditorio non reagiva alle sue sollecitazioni patriottarde e ai riferimenti aulici, cavava di tasca una bandiera con i quattro morì - vessillo della Sardegna - per piegare anche il più restio al l'applauso e alla commozione. Per favore, basta con certe viete ripetizioni, certe rappresentazioni grottesche della realtà, il richiamo agli affetti e alla mamma, specie se - peggiore delle circostanze - nascondono il vuoto pneumatico.