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27 gen 2013

Il dibattito svanito

di Luciano Caveri

Il regionalismo non c'è più nel dibattito politico italiano. Ha fatto la fine di tutto il tema delle riforme istituzionali. Sembra essere stato inghiottito dal buco nero della crisi e in un confronto politico autoreferenziale, fatto di scannamenti reciproci in favore di telecamere, che sono ormai monologhi urlati in cui - a differenza dei Paesi civili - non si ascolta l'avversario, se non per dargli sulla voce per interromperlo. E le stesse interviste ad personam servono più per parlare male degli altri che per illustrare i propri programmi. Ridateci le vecchie e più dignitose "Tribune elettorali" del mio vecchio e rimpianto amico Jader Jacobelli, che oggi appaiono di una inaudita modernità. Ma dicevamo del regionalismo che - quando si straparlava di federalismo - sembrava uno dei temi veri, tanto da occupare uno spazio vasto nei dibattiti delle famose "Bicamerali" e poi al centro di due riforme costituzionali, quella del 2001 del centrosinistra ancora in vigore (Riforma del Titolo V) e quella successiva del centrodestra bocciata nel referendum confermativo. In diverse situazioni istituzionali, sono stato almeno per un decennio in primissima fila, come membro della I Commissione Affari Costituzionale della Camera e della "Bicamerale De Mita - Iotti". Al di là che il federalismo era in dosi omeopatiche nella realtà dei fatti, di regionalismo si parlava davvero e sembrava emergere un sostanziale sostegno ad un regionalismo rafforzato e questo alla fine attutiva il tradizionale odio centralista degli apparati romani verso le autonomie speciali, che ha pesato come un macigno dal dopoguerra ad oggi a corrente alternata. In questa Legislatura appena conclusa, prima con Silvio Berlusconi e peggio ancora con Mario Monti, si è innescata la retromarcia e poi si è fatta un'inversione ad U fino ad un attacco frontale simile ad una marcia contromano distruttiva del regionalismo con attacchi particolarmente pervicaci e purtroppo ben concreti verso la specialità. Nel mirino in particolare le Regioni ad autonomia differenziata del Nord, quindi noi, sudtirolesi e trentini e Friuli-Venezia Giulia, diventati carne da macello. Botte anche alla Sardegna, che pure ha avuto meno "tagli" al riparto, ma ha continuato ad essere sfruttata con una logica colonialista, mentre la Sicilia è la Sicilia e nessuno la bacchetta di fronte ad un autentici orrori politici e amministrativi. Sarebbe stato logico che, dopo questa tempesta perfetta che ha investito Regioni ed enti locali in un disegno di ritorno ad un centralismo ottocentesco, il tema fosse al centro dei programmi dei partiti, specie dopo scandali e ruberie di certi esponenti della politica a livelli regionale che hanno creato sconcerto e suscitato scandalo, ma che non dovrebbero mutare la logica di un autonomismo sano e consapevole (che pure ci vorrebbe anche da noi, tornando sulla retta via). Ed invece tutto appare morto e finito: e il silenzio o peggio i brevi cenni programmatici sul nulla non sono per niente di buon auspicio. Anzi, tira un'aria che offre la sensazione che lo Stato con la maiuscola voglia riportare tutto il possibile a Roma e il Governo tecnico di Monti ha già ampiamente operato in questo senso, ma manca ancora il secondo tempo e il gioco per le autonomie locali rischia di farsi ancora più duro e perdente.