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20 set 2012

Il colossale business del vino

di Luciano Caveri

Sono un bevitore di vino moderato, cresciuto in una famiglia che aveva sempre il vino in tavola nella quotidianità e nei giorni di festa. Mio padre curava una bella cantina, che alimentava con l'acquisto di vini piemontesi in damigiana che venivano imbottigliati in casa e con una sorta di abbonamento con una rivista che credo si chiamasse "Quattrosoldi", che proponeva bottiglie di pregio. Da ragazzo "prelevavo" qualche bottiglia per le feste con gli amici e questo portò mia madre - tirchia dalla nascita - a mettere in piedi un sistema di sorveglianza sul patrimonio di vino che avevamo in casa. La mia generazione ha assistito e ha fatto il tifo per il cambio di velocità della viticoltura valdostana e i suoi passi da gigante, creando una bella parte di agricoltura sdoganata dalla sola zootecnia. Oggi, quando si va al ristorante con amici di fuori Valle, ci può esibire nella parte del connaisseur, scorrendo la carta dei vini locali, quasi sempre associando ogni vino - come capita in una piccola comunità - se non al viso del viticoltore ai luoghi dove ci sono le vigne. Pensavo alla nostra viticoltura di montagna ("eroica" che con "enoica" ha una bella assonanza...), leggendo il libro a due mani di Aymeroc Mantoux e Benoist Simmat, nella collana "Flammarion Enquête", intitolato "La guerre des vins" con sottotitolo chiaro: "plus cher que l'or, plus rare que le pétrole". Lo scenario è molto interessante e parte dalla previsione della cifra totale derivante dalla vendita di vino sul pianeta: 230 miliardi di dollari nel 2014. Si tratta - secondo gli autori del libro - del doppio del mercato della cosmetica! Poi - dopo un'inconsueta spiegazione sulla viticoltura in India - inizia il reportage vero e proprio, cominciando dalla California e dal loro "modello turistico" con interessanti cenni storici che ricordano come da qui tornarono in Europa alcuni vitigni, che erano stati importati dai precursori della viticoltura nordamericana, quando nel Vecchio Continente la fillossera aveva distrutto le viti. Il mercato degli Stati Uniti è cruciale per il futuro del vino, essendo il primo mercato mondiale. Poi ci si sposta in Argentina e in Cile, dove in scenari mozzafiato alcune multinazionali stanno investendo fior di quattrini in vini interessanti e poco costosi. Successivamente il libro scava in un mercato vastissimo come il Giappone, assai filofrancese, che conta anche su di una discreta produzione locale in crescita. Si incrociano nei capitoli seguenti il mercato del lusso di Hong Kong, che ha rubato a Londra la leadership in materia di aste su bottiglie pregiate, e poi la potenzialità terrificante - per consumi e anche per produzione - della Cina. Infine gli autori propongono "casi di scuola" in Francia e Spagna, occupandosi in vari passaggi dell'Italia, compresa la gaffe di un vino che diventa "Pinot Griggio" con due g... Il quadro che ne emerge è utile per riflettere sulla nostra viticoltura valdostana, assolutamente minuscola, ma che fa bene a puntare sulla qualità, sapendo che i prezzi elevati - se c'è eccellenza vera - non sono un problema. E sapendo, come morale che sottende tutto il libro, che viticoltura e territorio si sposano sull'altare del turismo anche con apposite strutture d'accoglienza (in inglese "winery"). Termine, quello di altare, non irriverente, visto che per noi cattolici il vino fa pure parte della Santa Messa.