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30 lug 2012

Che barba, che noia...

di Luciano Caveri

Nella mia vita ho fatto parte di diverse assemblee parlamentari: la Camera dei deputati (ma come Sottosegretario ho talvolta partecipato ai lavori del Senato), il Parlamento europeo, il Consiglio Valle, il "Comitato delle Regioni" e la Camera dei poteri locali del "Consiglio d'Europa". Per cui capisco come, per i cronisti politici anche più scafati, i lavori in sé dei parlamenti - che siano le Commissioni o l'aula - non hanno grande appeal. Non lo avevano ai miei tempi, quando cominciai ad occuparmi di politica proprio come cronista ed il mondo era ancora molto "slow", figurarsi oggi con mezzi di comunicazione che hanno la velocità di un lampo e si stancano in fretta delle notizie che invecchiano in un batter d'occhio. Mentre le procedure parlamentari - anche quelle più moderne come a Strasburgo e a Bruxelles - puzzano ancora di naftalina, essendo basate su logiche ottocentesche, che creano nei loro tempi e nell'ingessatura del protocollo una crescente incomprensione da chi segua le sedute in diretta. Esiste addirittura un problema di linguaggio, che ricordo mi appassionò quando ero un giovane parlamentare e mi divertivo a rendere comprensibile quel "politico-burocratese" che finirà per ammorbare anche il più aulico degli oratori. Noto che questo avviene con i giovani colleghi che seguono i lavori del Consiglio Valle, che magari twittando i lavori piombano in una catatonia sonnolenta per i minuetti di interrogazioni e interpellanze, per il braccio di ferro fra maggioranza e opposizione sulle mozioni e risoluzioni, sugli interventi in aula per la votazione delle leggi. Per cui si legge spesso una logica «che noia, che barba, che barba, che noia» alla Sandra Mondaini con la facilità di ridicolizzare i politici e i paludamenti regolamentari che li attorniano. A Montecitorio ho partecipato ai lavori di modifica dei regolamenti che, negli anni in cui ero a Roma, subirono delle migliorie per dare maggior attrattività ai lavori, ad esempio con riduzioni dei tempi di parola per evitare discussioni "monstre" o con l'introduzione di formule aula-televisione in occasione del "question time" e delle dichiarazioni di voto su particolari momenti, come ad esempio sui voti di fiducia. L'esito era assai dubbio anche perché i politici italiani hanno la "sindrome del discorso scritto", che io ho cercato - sembrerò vanaglorioso - di superare in fretta, perché solo andando "a braccio" si ha la garanzia che un qualunque tipo di platea possa seguirti con uno straccio d'interesse. So dunque quale sia la malattia, confesso però che non ho ben presente quale potrebbe essere la cura. Sul tema s'interrogano credo tutti i Parlamenti del mondo, grandi o piccoli che siano, alla ricerca di soluzioni che siano degne della società della comunicazioni di massa nella versione 2.0, almeno nel quadro della democrazia, perché dove ci sono le dittature c'è la logica dell'aula «sorda e grigia», come diceva con tono intimidatorio Benito Mussolini non a caso nel discorso alla Camera nel 1922. Per cui chiedo ai giovani cronisti di essere clementi: la nostra "qualità" ad personam è dettata dalle preferenze degli elettori e ci troviamo comunque in una bolla di una qual certa vetustà che si chiama "democrazia parlamentare". Per ora non so quale potrà essere la tappa successiva con qualche evoluzione che renda tutto più interessante e - lo dico scherzosamente - "glamour", mantenendo quella dignità delle istituzioni che resterà pur sempre vagamente inamidata.