Utilizziamo i cookie per personalizzare i contenuti e analizzare il nostro traffico. Si prega di decidere se si è disposti ad accettare i cookie dal nostro sito Web.
19 giu 2012

Per non perdere la speranza

di Luciano Caveri

Il "come eravamo" ha sempre un sapore agrodolce. L'aspetto agro sta nel fatto che - maledizione! - si invecchia e questo è un processo inarrestabile. L'aspetto dolce è che i ricordi tendono ammettere in primo piano le cose più belle del proprio passato. Riflettevo su questo aspetto, riprendendo un'annotazione che ho messo nel blog qui a fianco e che riguarda quella primavera-estate di venticinque anni fa, quando il fato mi portò ad entrare in politica con la prima elezione alla Camera dei Deputati. Devo dire la verità: a rivedere le foto di allora, cui corrispondono altrettanti ricordi dentro la mia testa, provo un senso di piacere per quei momenti. Quell'inizio mi ha consentito di poter vivere una lunga stagione politica di cui sono contento. Ma, inutile negarlo, chiunque oggi si trovi in politica da un certo numero di anni non può non interrogarsi sul perché questa stagione sia imbevuta non solo dai veleni dell'"antipolitica", ma anche da una serie di ragioni credibili e vere che sono "antipolitica" in positivo, cioè critica giusta e serrata di un sistema politico e istituzionale che puzza.

Chi crede nella politica, come "mediazione" alla base dei sistemi democratici, e ritiene che l'esercizio di questa attività debba avvenire all'insegna dell'onestà personale e dell'etica pubblica è il primo a deprimersi dell'attuale stato di cose. La partitocrazia italiana è rinata sempre dalle proprie ceneri con i vizi originari, connessi non solo alla Repubblica ma addirittura al Regno d'Italia, e la politica ha visto troppi eletti che hanno scelto questa "carriera" per il malaffare e l'arricchimento personale. Talvolta questo è avvenuto sulla base di una spinta popolare che stride con le speranze di controllo e di sanzione insiti nella logica del suffragio universale. Il "da farsi" è sempre la parte più complessa. Ho sentito tantissimi imbattibili nella parte di critica e di sanzione sull'esistente, molti meno nella parte costruttiva e cioè sul da farsi. Brandire il codice penale, come si sta facendo con la riforma del reato di corruzione, o immaginando come possibilità finale la ghigliottina, ma Beppe Grillo ha da poco detto di non voler essere Robespierre (che sotto la lama c'è poi finito lui stesso), non sono la soluzione definitiva. Certe storture della politica italiana sono come la coda delle lucertole, che una volta tagliata rispunta. Consiglio da questo punto di vista di leggere pagine e pagine scritte dalla nascita della Repubblica in poi, specie da parte di molti esponenti di quel partito che aveva fatto della morale pubblica la sua bandiera, lo scomparso Partito d'Azione, per convincerci che la svolta sta in una riforma profonda delle istituzioni. Non è un caso se le personalità più illustri – penso al profetico Luigi Einaudi di scuola liberale - spingevano per una riforma federalista dello Stato, strada mai intrapresa e anzi oggi in grande calo con il centralismo imperante di cui tanto ho parlato in questi mesi e di cui per ora non si tocca il fondo. Conosco bene il problema: da sempre si sostiene che l'Italia, specie con un Sud ancora imbevuto di problemi di criminalità organizzata e di scarso senso dello Stato, la riforma è impossibile. Altri dicono che o il federalismo si affermava ai tempi dell'unificazione italiana oppure, avendo scelto una strada diversa, non si può più tornare indietro. Ci sono poi quelli che furbeggiano, come quelli che sostengono che federalismo vuol dire campanilismo o "spezzatino" in un'epoca in cui lo Stato deve confrontarsi con l'Europa e abbisogna di una struttura monolitica. Naturalmente non sono d'accordo e credo che si debba cominciare a dire che non si possono escludere logiche di un federalismo a più velocità, altrimenti il gap Nord-Sud crescerà e prima o poi non saranno fenomeni ingenui come il leghismo a capitanare il distacco della parte più ricca e consapevole del Paese da quella che rischia persino continui arretramenti. Proprio le autonomie speciali del Nord possono essere, assieme alle altre Regione del Settentrione e del Centro dell'Italia, terreno di sperimentazione di formule costituzionali, specie con le possibilità offerte dalla riforma costituzionale del 2001 della parte del regionalismo, che consentano di avviare una riforma vera che sfoci poi in un federalismo compiuto. Capisco che trattare certi temi in epoche come questa, fra crisi economica e tentazioni autoritarie dal centro, è come cantare allegramente dal fondo di una tomba, ma è nei momenti difficili che bisogna tracciare le vie o se preferite le "uscite di sicurezza" per evitare che di fronte alle emergenze che verranno non ci sia una linea di indirizzo che ci consenta di essere speranzosi.