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15 mar 2012

Si chiama libertà

di Luciano Caveri

La nascita di nuovi mezzi di comunicazione - come il sito Internet su cui sto scrivendo in questo momento - hanno di certo cambiato una parte della tradizionale "comunicazione politica". So bene che anche in Valle ci sono quelli che, magari per analfabetismo informatico o per allergia allo scrivere, prendono in giro la "politica digitale". La tesi è che in Valle la politica si fa di persona, in mezzo alla gente, mostrando affabilità e uniformando la propria attività pubblica alla stressante logica del presenzialismo. Chi vive una politica fatta solo di presenza sul Web e dintorni diventerebbe una specie di fantasma e non una persona in carne ed ossa, mostrando snobismo e distacco dalla realtà. Condivido in parte questa obiezione, considerando giusto che in una comunità il politico non debba essere un personaggio pubblico remoto e mediatico, ma debba dimostrarsi un essere umano presente e disponibile. E' questo uno degli elementi di forza della democrazia di prossimità, che dovrebbe essere più soggetta - uso il condizionale - ad un controllo sociale che garantisca sui comportamenti degli eletti. I siti e la presenza sui social network (qui a fianco risultano i miei tweet), così come un interazione vera con chi ti scrive sulla posta elettronica, sono una nuova dimensione da cui non si può prescindere. E crea una singolare novità: questi spazi d'espressione obbligano a riflettere sulle regole che si applicano agli eletti. Per intenderci: mi è capitato di essere interrogato - stavo per scrivere "rimproverato" - su di un uso "libero" delle mie opinioni. Come se una disciplina di partito operasse in una logica onnicomprensiva e ognuno di noi in politica dovesse finire per essere incasellato rigidamente, come se vivesse in una caserma o in un alveare di api, nel seguire una linea valida per ogni argomento. Oppure può capitare che un'osservazione sulla "Chambre" (Camera di Commercio) e certe sue criticità, fatte qui sul blog con tono civile, siano diventate oggetto di grandi attenzioni e dietrologie varie: «Buon tempo», diceva mio papà. Confesso che l'idea di una gerarchia da "Grande Fratello", nell'originaria definizione orwelliana, un po' mi turba e non corrisponde alla mia concezione della politica come spazio di libertà.