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04 mag 2021

Gli anni di piombo

di Luciano Caveri

Io li ricordo bene gli "anni di piombo". Per i più giovani uso la definizione data dalla "Treccani": "nella pubblicistica politica, anni di piombo, il decennio successivo al 1970, in cui si sviluppa e domina il terrorismo, soprattutto in Italia e in Germania; la locuzione, che deriva dal titolo italiano del film "Die bleierne Zeit" (1981) della regista tedesca Margarethe von Trotta, fa diretto riferimento al piombo dei proiettili usati nelle azioni terroristiche ma evoca anche il clima opprimente, la pesantezza della situazione che caratterizzò quel periodo". Ero un ragazzo che si divideva fra i notiziari radiofonici a "Radio Reporter 93" di Torino, Palazzo Nuovo per le lezioni e la vita giovanile di città, finalmente fuori casa. Erano momenti gioiosi della mia vita, fatte di una voglia di fare e di capire, ma con quel grigiore che derivava dalla catena di attentati con stragi della destra neofascista e dall'emergere del terrorismo rosso, frettolosamente bollato da troppi come «compagni che sbagliano».

Avevo, negli anni prima, specie nelle lunghe estate imperiesi, amici che, attorno ai movimenti culminati nel "Movimento 77", vagavano nell'area di "Autonomia operaia". Alcuni finirono male, attirati da idee rivoluzionarie in cui la componente violenta e settaria era un fatto evidente. Da giovane cronista diedi conto al microfono nella Torino di allora di uccisioni e gambizzazioni. Gli opposti estremismi si bagnavano entrambi di sangue. Ecco perché ho sempre trovato la "dottrina Mitterand" di mancata estradizione di brigatisti rossi o simili una follia, che così spiegava il Presidente francese nel 1985: «i rifugiati italiani che hanno preso parte in azioni terroristiche prima del 1981, hanno rotto i legami con la macchina infernale a cui hanno partecipato, hanno iniziato una seconda fase della loro vita, si sono integrati nella società francese. Ho detto al governo italiano che erano al sicuro da qualsiasi sanzione di estradizione». Peccato che molti di loro fossero stati condannati dai Tribunali italiani per delitti commessi per terrorismo. Ora la dottrina si è rotta con Emmanuel Macron e nove di loro, protagonisti di diverse vicende, sono stati arrestati e sono state avviate le pratiche per l'estradizione. Trovo la scelta giusta, non per vendetta ma per giustizia. Ha scritto il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky su "La Repubblica": «Nel piano storico stanno tutte le possibili riflessioni su che cosa è stata la crisi del capitalismo (diciamo così) di antico regime e quali forze intellettuali, sociali e materiali tale crisi ha innescato negli anni '70 del secolo scorso. La storiografia ha qui da lavorare, formulando le sue ipotesi interpretative per cercare di comprendere che cosa è stato. Ma comprendere non è giustificare. Questo è un punto molto importante, a meno che le responsabilità si pensi di annegarle in una disumana "legge della storia". La comprensione storica non condanna, né assolve. Al massimo, prende atto delle ragioni che determinano i successi e i fallimenti». Poi lo svolgimento del suo pensiero: «Quando i terroristi ai quali si chiede di rinnegare le proprie azioni criminose, cioè di assumere una responsabilità morale, rispondono che si trattò di "errori" perché i tempi non erano maturi, si comportano da storici che non avevano compreso i tempi e perciò andarono incontro alla sconfitta. L'errore non è una colpa e, dunque, quel tipo di ammissione non ha niente a che vedere con la morale. La distanza che si prende o non si prende dai delitti è "relativa". Le circostanze storiche e gli obbiettivi raggiunti o falliti distribuiscono le ragioni e i torti. Alla fine, ciò che conta sono gli esiti. Poiché gli esiti non sono stati quelli rivoluzionari desiderati, che si ritenevano possibili, la violenza e gli assassinii di questi nostri criminali politici, quando essi li condannano, sono detti "sbagli" o "errori"»“. Concordo del tutto. Per questo bisognava non essere clementi sin dall'inizio. Ancora Zagrebelsky: «Sul piano politico (qualunque cosa "politico" significhi), c'è solo da dire che la democrazia non può essere deturpata da violenza, delitto, uccisioni. Il delitto "politico" non è meno grave del delitto "comune". Anzi: è più grave. La vita democratica è, per definizione, tollerante, ma la tolleranza è una di quelle virtù che si dicono reciproche: non si può, anzi non si deve essere tolleranti con gli intolleranti. Solo nell'ampio spazio della comune tolleranza nascono le virtù della democrazia». E ancora: «La "dottrina Mitterrand" è perfettamente comprensibile e giustificata quando serve a proteggere i perseguitati politici da regimi antidemocratici (in questo significato essa è perfettamente in linea con l'articolo 10 della Costituzione italiana). Ma la protezione che, finora, la Francia aveva concesso ai terroristi di cui stiamo parlando stava a significare una certa arroganza: noi siamo la patria della libertà e della democrazia e, da questo pulpito, diciamo all'Italia ch'essa non lo è o non lo è abbastanza. Oggi, se ci sarà l'estradizione, questa offesa sarà lavata».