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26 mag 2010

Il comizio morituro

di Luciano Caveri

Al capezzale del comizio, che sta ormai esalando l'ultimo respiro, ci sono tutti quei nostalgici che, come me, possono dire «io l'ho conosciuto bene» e dunque non possono che parlar bene del povero moribondo. E' sempre triste, in certi momenti, il ricordo di quando il comizio era un fenomeno sociale e le sale debordavano, poi la televisione ha invaso le sere e la politica è scesa in basso nelle priorità. Penso a certe elezioni, come quella del 1992, quando mi trovai con César Dujany contro la coppia - vincente, sulla carta - di Augusto Fosson e Giulio Dolchi. Allora i comizi scoppiavano di passione: erano feste, piene di gente e parlare in pubblico era una gioia, come una febbre che ti riempiva di adrenalina e la sera, pur stanco, non riuscivi a dormire per quel ribollire di coscienze e quei bagni di folla. Specie i comizi delle politiche, con la tua solitudine di candidato, erano delle maratone oratorie e, con il tempo e passata l'emozione, potevi scegliere ogni sera spunti nuovi per non annoiarti da solo. Ricordo uno dei primi comizi in un bar di Bionaz con un ciucco molesto, il rumore di un flipper e della macchina del caffè di sottofondo e tu, con il tuo foglietto in mano, a parlare dei massimi sistemi. Una scuola di vita. Oggi il comizio è ben poca cosa se rapportato al tempo che fu. Manca ancora un vero e proprio sostituto e se alla fine fosse un comizio che correrà sul web?