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06 feb 2010

Tempus fugit

di Luciano Caveri

Quando da bambino quelli che ti sembravano anziani - spesso molto più giovani dell’età che io ho oggi - ti dicevano di quanto rapidamente passasse il tempo e «di goderti gli anni più belli», la risposta era svogliata e trionfava la distrazione. Della serie: «va bene, va bene». In realtà pensavi ad altro e - a Dio piacendo - ti sembrava che il tempo fosse infinito, come delle pagine bianche da scrivere senza badare al risparmio.

Poi d'improvviso ti accorgi di quanto davvero fili veloce la vita e, specie con i figli, si spalanca il baratro di essere dall'altra parte della barricata, nel senso che sei tu, questa volta, ad essere quello che ammonisce sul tempo che passa. E lo stesso vale per quelli che ti lasciano per strada, andandosene come solo la morte sa fare e spesso non si tratta degli anziani, ma di tuoi coetanei e questo colpisce di più. C'è quella frase di Jean Claude Carrière, che recita: "Le temps, c'est un peu comme le vent. Le vent, on ne le voit pas : on voit les branches qu'il remue, la poussière qu'il soulève. Mais le vent lui-même, personne ne l'a vu". In effetti questo medesimo concetto lo si ritrova, non a caso, nelle iscrizioni delle meridiane antiche sulle case della Valle. Il tempo fuggitivo è un classico e la vita di ciascuno di noi suona come una testimonianza. Ma a ben guardare - e fuori da ogni nostalgia che vale quel che vale - questa indeterminatezza da clessidra delicata che si può rompere in ogni istante o far passare i granelli che filano giù sino all'ultimo è quel che rende la vita quel che è.