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25 set 2009

Kabul

di Luciano Caveri

Confesso di aver atteso prima di scrivere. La speranza era che venissero le parole giuste per parlare delle conseguenze della trappola assassina in cui sono caduti i militari italiani. Non ho trovato argomenti adatti, ma il silenzio, visto che ho sempre parlato, nel piccolo, degli argomenti di maggior attualità, poteva suonare come una grave omissione, una scelta di non toccare argomenti delicati o difficili. Invece direi che non si può dir altro che questa è la guerra, anche sotto la forma nobile di quella che pudicamente si chiama "missione di pace" e che i militari di carriera sanno che la morte è un rischio connesso alla scelta professionale che hanno fatto. Gli estremisti islamici sperano prima o poi, lì come altrove, di fiaccare la resistenza dell'opinione pubblica dei Paesi i cui ragazzi rientrano stesi nelle bare. Fanno il loro mestiere, basandosi oltretutto su di una visione del mondo astratta e fallace, che li vede protagonisti di una guerra contro l'Occidente e i suoi valori, spesso aiutati da un pacifismo simile a quello - leggete qui vicino - che aiutò Hitler a perseguire i suoi progetti. Per cui il dolore deve servire a confermare un impegno.