blog di luciano

Sempre meno volontari

Leggevo del rilevamento ISTAT permanente delle istituzioni no profit, da cui risulta la perdita quasi di un milione di volontari attivi nelle organizzazioni, passati dai 5,5 della rilevazione precedente, quella del 2015, ai 4,6 del 2021, anno di riferimento della nuova indagine. Esiste nel terzo settore una difficoltà a coinvolgere nuovi volontari e ad avere un ricambio generazionale.
Vado a vedere quanto scrivevo sul tema proprio nel 2015 e questo dimostra che questa situazione la si sentiva arrivare: “Nel momento in cui il settore pubblico arretra e lascia spazi vuoti - così scrivevo allora - si indica nel ruolo del volontariato una delle strade maestre, considerando l'impegno civico personale come una medicina ad adiuvandum lo Stato Sociale, quando abbandona alcuni campi. (…) Tra l'altro andrebbe chiarito, come avviene in tutti i Paesi civili, che il volontariato non è né di Destra né di Sinistra, penetrando in larga parte del tessuto sociale come un impegno personale, certo spesso in forma collettiva, che ha nel suo "dna" anzitutto il desiderio - ripeto disinteressato - di "fare del bene" o, giusto addendo, "essere attenti alla difesa del bene comune" “.
Noto per inciso come nel frattempo lo stesso termine “bene comune” sia stato fiaccato dal suo evidente abuso. Il rischio che un’espressione diventi prezzemolo c’è sempre.
Resta il fatto che certe difficoltà nel reperimento di volontari sono aumentate e questo pesa anche in Valle d’Aosta, dove esiste un reticolo forte del Terzo Settore e cioè enti di carattere privato e associazioni che operano senza scopo di lucro. Questo non significa non avere profitti, ma più semplicemente reinvestirli per finanziare le proprie attività, senza redistribuirli tra i membri delle proprie organizzazioni o ai propri dipendenti, che ovviamente sono pagati per il lavoro svolto. Segnalo sempre in questi casi la scelta francese di avere una meglio definita categoria di volontariato chiamata bénévolat", cioè impegno non retribuito in nessun modo, ma mi pare che la modellistica italiana sia ormai diversa, come da legge quadro in vigore e perimetrare ulteriormente risulterebbe difficile.
Della crisi scriveva ieri sul Corriere Beppe Severgnini, con un incipit chiarificatore e un esempio che lo concerne: “Compiere un gesto generoso è facile, essere generosi è difficile. Potrei suggerirlo come motto all’Abio, Associazione per il Bambino in Ospedale. Fondata nel 1978, assiste i piccoli ricoverati e le famiglie. Ieri ha festeggiato la giornata nazionale in molte piazze d’Italia. Un aiuto prezioso, un servizio formidabile. Ma la preoccupazione si sente. Di Abio, da anni, sono testimone (oggi affiancato dalla nipotina Agata, diciotto mesi, fuoriclasse del video). Ieri sono stato a Magenta. La locale associazione stenta: si sono informati in 60, all’incontro preliminare erano in 25, sono rimasti in tre. Perché tante rinunce? Perché il servizio ai bambini in ospedale — mi ricordava ieri il presidente Abio, Giuseppe Genduso — richiede preparazione: sanitaria, psicologica, pedagogica, legale. Le norme sulla protezione dei dati (Gdpr) sono complesse (fin troppo). La contabilità dev’essere rigorosa. Il servizio preciso, continuo, regolare. Tutto ciò richiede impegno e fatica”.
Più avanti la proposta, che è anche una stoccata, forse ingiusta: “Che fare? Be’, le regole potrebbero essere allentate: il carico amministrativo nel terzo settore sta diventando insostenibile. E i volontari — tutti, non solo quelli dell’Abio — devono convincersi che contano la precisione, l’affidabilità, la costanza. I clown in reparto sono ammirevoli. Ma arrivano e ripartono. La differenza la fa chi resta”.
Verissimo e aggiungerei solo che in Italia, a beneficio del volontariato vero e ben strutturato, andrebbero fatte azioni serie per distinguere il grano dalla pula, pensando a chi si è insinuato senza ragione nel volontariato.
Resta il fatto che, continuando di questo passo con il calo degli aderenti e l’invecchiamento dei volontari, rischia di andare in crisi uno dei pilastri non solo del nostro Welfare, ma dello sviluppo economico in genere, perché in molti casi si creerebbero vuoti non sostituibili.

Bene parlare delle Autonomie

Prevedo per domani una giornata intensa. Sarà, infatti, il momento clou, cui ho l’onore di partecipare, della seconda edizione de "L'Italia delle Regioni”, il festival nazionale della Conferenza delle Regioni e delle Province autonome. Un’idea interessante per mettere una volta l’anno sotto la lente di ingrandimento il bistrattato regionalismo in Italia.
Quest'anno la manifestazione si dipanerà in piazza Castello, che nel fine settimana si trasformerà - ovviamente con la presenza valdostana - in un “Villaggio delle Regioni” all’insegna delle eccellenze territoriali, sapendo che questi luoghi sono pure simboli della storia d’Italia e anche della nostra lunga storia comune con Casa Savoia. Palazzo Reale, Archivio di Stato e Teatro Carignano ospiteranno due giornate di incontri istituzionali di grande caratura, mentre il Parlamento Subalpino - dove sedette il fratello del mio bisnonno, Antonio Caveri, poi Senatore del Regno - riaprirà le porte dopo oltre un secolo ed è un’emiciclo bellissimo che addolora per la sua fine sotto i colpi della Storia.
Io parlerò in un tavolo piuttosto vario come personalità su di un tema vasto (PER L'INTERNAZIONALIZZAZIONE DEI TERRITORI: promozione del made in Italy, internazionalizzazione ruolo delle Regioni in Europa) e dunque, nei 10 minuti a mia disposizione dovrò scegliere bene cosa dire e lo farò al momento, sentita l’aria che tira.
Ovvio che il regionalismo in Europa, sia guardando alle diverse Costituzioni dei Paesi membri sia ai Trattati dell’Unione sul tema, resti un elemento necessario da esplorare, anche nelle prospettive dell’autonomismo valdostano e della sua capacità di trasformazione, resa sempre più necessaria dall’evoluzione nel tempo. Se questo non avvenisse, visto che tutto invecchia, rischieremmo grosso, prima o poi. Per questo bisogna restare vigili e sforzarsi di non perdere di vista scenari altrui per vedere come le cose si evolvano.
Da seguire in questi tempi quanto sta avvenendo in Corsica con la scelta di apertura del Presidente Macron.
Leggevo un interessante e assieme istruttivo editoriale di Le Monde: “Venu célébrer, jeudi 28 septembre, le 80e anniversaire de la libération de la Corse, Emmanuel Macron a utilisé un mot qu’aucun de ses prédécesseurs ne s’était résolu à employer. Devant les élus de l’Assemblée de Corse, à majorité nationaliste, le président de la République s’est dit favorable à une « autonomie » de l’île « dans la République », tout en prévenant que « ce moment historique » ne se fera pas « sans » ou « contre » l’Etat français”.
Segue la spiegazione: ”Même si un long et aléatoire chemin reste à parcourir avant que l’île soit reconnue dans la Constitution en tant qu’entité particulière, le fait que le président de la République se résolve à poser l’« autonomie » comme meilleure option possible représente une étape importante dans les relations tourmentées entre le continent et la Corse”.
Perché Macron lo ha fatto? Risponde il giornale francese: ”Son évolution s’est opérée sous une double contrainte : celle d’une nouvelle poussée des nationalistes lors des élections régionales de 2021 et celle d’une énième vague de violence déclenchée sur l’île en mars 2022 par la mort en prison d’Yvan Colonna, qui purgeait sa peine pour le meurtre du préfet Erignac et a été tué par un codétenu. Le gouvernement a alors dû relancer, dans les pires conditions, un cycle de négociations qui n’aurait pas pu démarrer sans la promesse d’« autonomie » formulée par le ministre de l’intérieur, Gérald Darmanin”.
Ma l’aspetto interessante sta nella sfida lanciata da Macron, che in fondo è una pista in qualche maniera altrettanto interessante e similare nel tentativo in corso - cui ho dato qualche mio contributo di pensiero - da parte delle Speciali, Valle d’Aosta compresa, per un impulso congiunto agli Statuti speciali, in parte depotenziati in questi anni.
Macron chiede, infatti, che entro sei mesi l’Assemblea Corsa si metta d’accordo in modo unitario come conditio sine qua non per proseguire. Osserva le Monde quanto non sia semplice: “Au vu des fortes divergences entre nationalistes et autonomistes et sachant les réticences de la droite à toute démarche d’autonomie, le succès n’est pas garanti. Du moins chacun est-il placé devant ses responsabilités à un moment où l’île se porte économiquement mieux mais a de sérieux problèmes à résoudre en lien avec son insularité : montée du grand banditisme et du trafic de drogue ; crise du logement affectant particulièrement les jeunes ; vieillissement de la population rendant problématique l’accès aux soins dans un habitat dispersé…
En flattant l’esprit de résistance des Corses mais en soulignant les attentes concrètes de la population et le besoin d’espérance des jeunes, Emmanuel Macron a mis les élus sous pression et tenté d’enrôler derrière lui les forces vives. Il s’est aussi dévoilé aux yeux de la représentation nationale, qui devra dire sous quelle forme, jacobine ou girondine, la République a le plus de chance de prospérer dans les années à venir. Rarement les conditions d’une évolution n’ont paru aussi favorables. Les élus corses auraient tort de bouder le moment”.
Torna, come una maledizione, il rischio, presente nelle forze autonomiste e indipendentiste corse, delle divisioni e degli scontri interni. L’ideale per il “divide et impera” degli Stati e delle forze politiche di destra e di sinistra con visioni giacobine.

Una pesca avvelenata

Ormai si vive una vita sul Web. Inutile contarci storie. Quando facciamo la morale ai nostri figli, perché tossici di telefonino e tablet, sappiamo bene che siamo ipocriti, facendo grossomodo le stesse cose. Con l’eccezione, almeno nel mio caso ma so che altri lo fanno, di non essere vittima dei videogiochi e con l’alibi, parzialmente vero, che uso le diavolerie digitali prevalentemente per lavoro. Aggiungerei, purtroppo, perché limita ormai spazi di libertà e non permette di godere del legittimo, come dicono i francesi con un italianismo, “farniente”.
Ci pensavo rispetto a questa polemica in un bicchiere d’acqua – trasformatasi sui Social e a rimorchio sui quotidiani (che seguono i Social…) – sulla pubblicità, perché alla fine di questo si tratta, fatta da Esselunga.
Un raccontino filmato di una bimba, figlia di separati, che compra una pesca in supermercato e la dona al papà come se fosse un regalo della mamma, immaginandosi che questo flebile legame possa in qualche modo favorire una loro riconciliazione. Chi ha immaginato la storiella ha fatto pubblicità senza eguali al gruppo creato dal leggendario Bernardo Caprotti (che fu autore del memorabile e da me letto “Falce e carrello, Le mani sulla spesa degli italiani”, pamphlet contro la COOP). Penso che i creativi immaginassero certa una risonanza, tuttavia sottostimata rispetto all’ampiezza ricevuta. Alla Sinistra il messaggio non è piaciuto per la logica conservatrice e anche piagnona, mentre alla Destra è parso un buon messaggio in favore della famiglia tradizionale. Circostanze militanti che fanno ridere entrambe. A Sinistra perché si è drammatizzata una storiella e immaginato il solito complotto dei poteri forti. Mi pare che ci siano questioni più di fondo. A Destra perché i leader che inneggiano alla Famiglia con la f maiuscola hanno storie familiari le più scompaginate possibile. Predicano bene, razzolano male.
A me alla fine lo spot non è dispiaciuto, anche se forse inadatto per una catena di supermercati, che potrebbe cercare messaggi diversi, ma chi pianifica le campagne sa che creare scandalo serve sempre per affermare un marchio e così, a conti fatti, è avvenuto. Perché non mi è dispiaciuto? Per un motivo umanissimo e pure triste: sono un papà separato e poi divorziato, quando i miei figli erano ancora relativamente piccoli e so bene due cose. La prima è che la scelta di lasciarsi per una coppia con figli implica sofferenze per i bambini, anche se ho sempre pensato che la sofferenza è maggiore nel vivere con genitori che non vanno più d’accordo. La seconda è che, almeno nei primi tempi, è del tutto naturale che persista una speranza per i figli e che i loro papà e mamma possano in qualche modo riconciliarsi. Raramente avviene e lo sforzo, a quel punto dev’essere, quello di accettare i fatti e avere la massima armonia possibile per il loro bene.
Gli assetti familiari cambiano e bisogna accettare che ciò avvenga senza falsi moralismi e accettando la diversità delle configurazioni familiari, a patto di restare su di un terreno di buonsenso ed evitando eccessi.
Certi toni offensivi e difensivi sulla pubblicità sono stati una esagerazione per una semplice ragione: i Social sono ormai un covo di violenza e di rancori. C’è chi, sinistra e a destra o in qualunque altra latitudine politica, non riesce a trattenere i propri eccessi. Al posto di usare il fioretto o l’ironia, sempre benvenuti, si usa la clava e l’insulto, considerando il potenziale avversario rispetto alle proprie posizioni come un nemico da annichilire senza pietà e rispetto. Amo la polemica, non mi tiro indietro, spesso mi è capitato di eccedere, ma c’è chi ormai va più in là e trasforma ogni occasione utile in un momento in cui sputare veleno e sentenze.
Vien voglia di chiudersi in un eremo, senza segnale telefonico e senza Wifi, per liberarsi da certe tossine.

La francofonia: una finestra sul mondo

”La francophonie, c'est un vaste pays, sans frontières. C'est celui de la langue française. C'est le pays de l'intérieur. C'est le pays invisible, spirituel, mental, moral qui est en chacun de vous”.
Gilles Vigneault

Sarò pure considerata da qualcuno affermazione retorica, ma sono realmente convinto della forza ben presente della francofonia per la Valle d’Aosta. Premetto che conosco la solita solfa: a che cosa serve ai valdostani coltivare questa lingua, visto che l’inglese ormai è diventata nel mondo la lingua franca, che prima era stata proprio il francese?
Il plurilinguismo è un bene e con questo credo di aver sgombrato il campo.
Il francese è per i valdostani una lingua storica, ben prima che arrivasse l’italiano. Questo significa non uno stucchevole richiamo al passato del tempo che fu, ma sono le radici culturali profonde che sostanziano la comunità odierna.
Altro pregiudizio, ormai per fortuna sepolto, essendo la tesi degli arpitani: la vera lingua dei valdostani è il patois francoprovenzale ed il francese è stata una lingua imposta dall’alto. Oggi è ben chiaro, con la progressiva italianizzazione del patois, come il bilinguismo francese-francoprovenzale (lingue originali neolatine, con parole pur d’altra provenienza) consenta di sostenersi reciprocamente in un reciproco arricchimento.
Non è che il francese in Valle d’Aosta casa dal cielo: lo si deve a millenarie ragioni geopolitiche, dovute al posizionamento della Valle, che resta ancora oggi valido, anche nella logica di abbattimento delle frontiere in chiave europea, con larga parte dei suoi confini con Paesi francofoni come la Francia e la Svizzera Romanda.
Per il resto qualche citazione da una recente pubblicazione che spiega in questo modo la situazione nel mondo: ”L’Observatoire de la langue française a publié ses nouveaux chiffres qui soulignent une progression continue de la langue française dans le monde depuis 2018. Avec 321 millions de locuteurs, le français est toujours la 5e langue la plus parlée après l’anglais, le chinois, l’hindi et l’espagnol”.
Lo stesso rapporto osserva:”"On naît de moins en moins francophone, mais on le devient de plus en plus !". Si la majorité des francophones dans le monde ont un usage quotidien de la langue et si la progression du nombre de francophones en Afrique est une constante, la pratique de la langue française n’est pas pour autant "naturelle" : les nouveaux locuteurs pour lesquels le français n’était pas, le plus souvent, la langue première, "se l’approprient sur la base d’autres compétences linguistiques"”.
Quindi per chi non ha il francese come “langue maternelle”, il francese lo si apprende per ragioni di lavoro e per il fascino della cultura che sottende.
Piccoli come siamo dobbiamo, come valdostani, farci forti di una ragionevole politica estera consentitaci dal francese sia nella prossimità già citata, ma anche - e questa è mia esperienza passata e attuale - in quella rete assai varia di Regioni francofone è una ricchezza di rapporti politici, economici e culturali da considerare preziosa per noi e ci rende più grandi. Perché dovremmo rinunciare a questa opportunità in una logica che non potrebbe far altro che impoverirci, oltre a rinnegare uno dei fondamenti del nostro regime di Autonomia speciale?
Certo che lo sforzo per far capire questa ricchezza deve riguardare soprattutto i giovani per dar loro la consapevolezza che il francese non è uno sforzo in più come vuoto a perdere, ma un elemento identitario che apre a diverse opportunità.
 

Il patto fra il Piano e il Monte

Una coppia di vecchi amici, Mariano Allocco e Annibale Salsa, hanno scritto un documento sulla montagna nelle settimane scorse e ho aspettato qualche tempo per ospitarli nel mio Blog. Non sto a lodarli per la vecchia militanza in favore della politica della montagna perché non ne hanno bisogno. Viviamo assieme, in scambi periodici, una qualche delusione sul dibattito su di un tema cruciale per i montanari, che non sempre vede riflessioni e proposte di qualità e rischia di affondare nella retorica convegnistica e in più parole che fatti. Ma mai perdiamo la speranza di un sussulto e vediamo ogni tanto la luce in fondo al tunnel.
Questo l’inizio del contributo: ”Il dibattito sulla “questione montana” sta sempre più prendendo piede e coinvolge più voci in spirale positiva. Si tratta di un confronto che sta indirizzando energie, idee e proposte verso un obiettivo che, a nostro avviso, non è più procrastinabile: arrivare a un nuovo Patto tra Monte e Piano. Vi è un importante precedente nella storia delle popolazioni alpine rappresentato dal “Patto del Grũtli” (1 agosto 1291) con il quale i montanari dei Cantoni centrali (forestali) delle Alpi svizzere si federano tra loro avviando successivamente un processo di negoziazione con gli abitanti delle città del Piano. In tempi più recenti un documento molto importante sarà la “Carta di Chivasso” (19 dicembre 1943) che rilancia, in chiave federalista, un modello di governance per le regioni alpine”.
L’idea del patto, che va sviluppata anche in termini giuridici e non solo ideali, viene poi approfondita nella parte più propriamente legata al passato in termini esemplari: “Parliamo di un Patto nuovo perché la storia ci dà testimonianza di un Patto antico in base al quale le Alpi, prima luogo di passaggio, divennero luogo abitato stabilmente allorquando si riconobbero “libertà e buone vianze” a coloro che si facevano montanari e su questo Patto genti di buona parte d’Europa si fecero allora montanare.
Partiamo da una storia lontana per proporre un contributo al dibattito, sicuramente non semplice, al fine di arrivare a un quesito dirimente a cui proprio le “parti” debbono dare una risposta condivisa.
Concessioni di franchigie, immunità, libertà si ritrovano trasversalmente alle Alpi su entrambi i versanti, sia quello italiano sia quello esterno transalpino fino al XVIII secolo allorquando i confini trasformati in frontiere salirono sullo spartiacque e le Alpi, che fino ad allora erano state cerniera e raccordo, divennero barriera divisoria.
Nei secoli XII-XIII-XIV alcuni signori territoriali (laici ed ecclesiastici), particolarmente interessati nel mettere a frutto le terre incolte di montagna, avevano deciso di sottoscrivere contratti di insediamento con famiglie coloniche disposte a lasciare il Piano per vivere sulle alte terre in “libertà e buone vianze”, privilegi che in pianura non erano concessi. Fu allora che l’Ecumene, i territori in cui l’uomo vive stabilmente, raggiunse le quote più alte.
Sulle Alpi i nuovi abitanti si fecero montanari e convissero senza problemi con genti diverse che altrove si trovavano in conflitto. L’immanenza della geografia dei luoghi e del clima prevalsero su tutto e anche in ciò, dalla storia del vissuto alpino, si potrebbero trarre insegnamenti utilissimi anche per i nostri tempi.
La prima grave crisi dell’economia alpina arrivò con l’industrializzazione della metà dell’800 quando il vapore prima e l’elettricità poi fecero scendere a valle fabbri, falegnami e tutto il settore secondario.
Contemporaneamente si ebbe un incremento demografico, iniziò l’emigrazione permanente ma il colpo finale arrivò nel secondo dopoguerra allorché migliaia di imprenditori agricoli chiusero le loro aziende per scendere al Piano dove serviva forza lavoro nell’industria.
Il bilancio economico di questo esodo rimane tutto da fare.
Fu allora che cominciò la discesa dal limite superiore dell’Ecumene. Discesa che continua inesorabile e che lascia dietro di sé un bosco che avanza inesorabile ovunque, una marea verde che tutto ingloba, una colata che tutto travolge e cancella l’orma dell’uomo”.
Dalla ricostruzione storica al presente: “Non scriviamo di queste vicende passate per una semplice rivisitazione storica ma perché siamo convinti che, per parlare di “questione alpina”, bisogna ripensare - adattandole al presente e al futuro - certe buone pratiche avviate con lungimiranza in tempi lontani.
Se per Ecumene intendiamo i territori in cui l’uomo può vivere tutto l’anno, le alte Valli possono ancora essere strategiche per la vita dell’uomo senza farle ritornare territori dominati dalla “wilderness”, luoghi in cui la natura selvaggia (soprattutto quella dei grandi carnivori che rischiano di allontanare definitivamente gli alpigiani dalle malghe) è padrona assoluta.
Questo, in sintesi, è il tema che proponiamo di affrontare per discutere della “questione alpina” tenendo conto che le scelte fatte negli ultimi quarant’anni sono state improntate all’abbandono del Monte.
A livello istituzionale si è introdotto il metodo maggioritario smantellando l’approccio comunitario che è stata la colonna portante del governo delle comunità alpine.
La sostituzione, in molte Regioni, delle Comunità Montane con le Unioni Montane - veri mostriciattoli organizzativi che invece avrebbero potuto e dovuto evolvere verso istituzioni a elezione diretta e di autogoverno dei territori e l’istituzione di un sindaco dal ruolo quasi monocratico - hanno prodotto uno scollamento profondo tra comunità e istituzioni.
La politica dagli anni ’90 ha poi guardato verso il Monte con sguardo ecumenico senza significativi distinguo da parte dei partiti che hanno governato, scelta che non ha portato grandi risultati se siamo giunti alla situazione attuale.
Per farla breve: la strategia da adottare verso il Monte deve avere la centralità sull’ambiente naturale o sull’uomo che quell’ambiente vive? Questa è la domanda fondamentale a cui rispondere nel siglare un nuovo Patto tra il Piano e il Monte.
La prima porta le alte Valli a diventare una grande area inselvatichita, che è la deriva attuale, luogo in cui la natura selvaggia la fa da padrona. La seconda ha l’obiettivo di renderle abitabili e vivibili, luoghi in cui una famiglia possa lavorare e restare con i propri figli.
A nostro avviso una scelta si impone al più presto, una decisione di Parte che non ammette
“ecumenismo”, un atteggiamento che le Parti politiche hanno da almeno quattro decenni adottato nei confronti del Monte.
Le Parti devono esprimere scelte coerenti con le diverse impostazioni programmatiche generali come avviene per tutto quanto riguarda il governo dello Stato. Che il Governo dello Stato, delle Regioni, degli altri Enti di gestione competa alla destra o alla sinistra le politiche montane non cambiano.
In modo sommesso rileviamo che l’ecumenismo è l’atteggiamento adottato in Occidente nei confronti delle Colonie da sottomettere e sfruttare, ma il Monte colonia non è e non vuole diventare.
La questione montana si deve nuovamente mettere all’ordine del giorno della Politica nazionale. Ecco perché torniamo a proporre un Patto tra Piano e Monte. Un patto che necessita di creatività, passione e concretezza, forse difficile da definire ma l’importante è cominciare a parlarne, a mettere le carte in tavola senza barare. Questo è l’obiettivo di un Patto tra Pari che si deve scrivere e sottoscrivere.
Non servono pannicelli caldi e rattoppi, serve una scelta di campo. Si deve tornare a confermare agli uomini della montagna le franchigie, le immunità, le libertà e le “buone vianze”: quelle decisioni che fecero delle Alpi una delle regioni più popolate e scolarizzate d’ Europa. Una proposta che lanciamo dalle Valli e per le Valli alpines.”.
Pensieri profondi su cui riflettere.

Gli armeni senza pace

La notizia da agenzia di stampa è asciutta: “Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan è arrivato a Nakhchivan, nell'enclave azera in territorio armeno di Nakhchivan per colloqui con il presidente dell'Azerbaigian Ilham Aliyev. L'incontro arriva dopo il riaccendersi delle tensioni in Nagorno-Karabakh tra Bake ed Erevan. "La vittoria delle forze di Baku contro l'esercito dei separatisti armeni in Nagorno Karabakh ha aperto nuove possibilità per una normalizzazione nella regione", ha detto Erdogan”.
Torna così nell’immaginario la spregiudicatezza del leader turco, che mostra quanto sia indegno pensare alla sua Turchia nell’Unione europea ed evoca un fantasma: il genocidio armeno, di cui in fondo i fatti attuali sembrano un’appendice.
Ha scritto Il Post sul dramma degli armeni: “La gran parte del genocidio degli armeni si compì nel giro di un anno, tra il 1915 e il 1916, ma i massacri continuarono anche per gran parte degli anni Venti.
Dei 2,5 milioni di armeni che si trovavano nell’impero ottomano all’inizio del secolo il 90 per cento fu ucciso o deportato fuori dall’impero. Si stima che alla fine del genocidio circa un milione di armeni morì per mano degli ottomani. Alcune centinaia di migliaia di donne e bambini furono costretti a convertirsi all’Islam e furono adottati da famiglie turche, mentre moltissimi altri armeni fuggirono, creando una diaspora che ancora oggi è forte in molti paesi del mondo, compresi gli Stati Uniti”.
Ho letto e riletto libri e documenti sulla tutela delle minoranze linguistiche e nazionali (gli armeni sono pure cristiani e dunque pure colpiti per questo) e le esperienze più interessanti le ho fatte al Consiglio d’Europa che sul tema si è molto impegnato. Peccato che, a dimostrazione fra il dire e il fare nel diritto internazionale, la Turchia - persecutrice anche dei curdi- ne faccia parte.
L’Italia sull’aggressione azera agli armeni di queste ore tace per via del gas indispensabile che arriva dall’Azerbaigian e per altro la stessa timidezza verso la Turchia, per interessi economici, l’ha sempre avuta verso la persecuzione dei curdi e le evidenti ambiguità sulla guerra in Ucraina, dando un colpo al cerchio e una alla botte.
Andrea Riccardi sul Corriere della Sera è fra i pochi ad averne scritto:
“Sembra una storia che si ripete: gli armeni in fuga dalle terre ancestrali, lasciando i loro abitati con le tipiche chiese dalle cupole coniche. Sta avvenendo nel Nagorno Karabakh, enclave armena di meno di 150.000 abitanti nel territorio dell’Azerbaigian, proclamatasi nel 1991, con la fine dell’Urss, Repubblica autonoma, appoggiata dall’Armenia. Le truppe azere ora hanno ottenuto la resa di quelle locali e si apprestano ad integrare la regione nell’Azerbaigian, dopo una grave crisi umanitaria che ha investito gli armeni isolati. È una storia quasi dimenticata, minore di fronte alla guerra in Ucraina. Ma legata a questa crisi. La Russia, storica protettrice degli armeni, è impegnata altrove. Nuove relazioni occidentali del governo di Erevan non colmano il vuoto della ex potenza «imperiale», che ha 2.000 soldati in Karabakh e una base in Armenia. Ora gli armeni del Karabakh stanno partendo (attraverso l’unica via aperta pur con difficoltà), temendo per la sopravvivenza sotto il controllo azero”.
Quadro crudo e realistico di una violenza che strappa dalle proprie radici un popolo.
Alla fine dello stesso articolo, Riccardi evoca i problemi del Caucaso e certe difficili rapporti spesso anche a causa di confini tagliati con l’accetta: ”I nazionalismi hanno sconvolto la convivenza. Nel 1905 gravi scontri avvennero a Baku, tra armeni (ancora vivevano là, spesso benestanti) e azeri. Poco dopo, nell’impero ottomano, maturò il disegno di eliminare gli armeni. Nel 1936, Stalin creò Georgia, Armenia e Azerbaigian. La popolazione era piuttosto mista. Azeri vivevano in Armenia e armeni in Azerbaigian. A quest’ultima Repubblica fu assegnato il Karabach con uno statuto di autonomia. Sulla regione vigilava il Cremlino, finché non si dissolse l’Urss.
Così cominciarono le guerre. La prima nel 1994 con 30.000 morti: l’Armenia vinse occupando territori azeri che creavano continuità territoriale con il Karabakh. Ovunque le popolazioni si spostavano e i segni della presenza dell’altro venivano violati o cancellati. Il Karabakh divenne un simbolo per il nazionalismo armeno. In Azerbaigian era grande la frustrazione per la sconfitta. Venticinque anni hanno cambiato l’Azerbaigian, ricco di giacimenti di gas e petrolio, sostenuto dalla Turchia, divenuto militarmente forte. Oggi gli idrocarburi azeri sono decisi per l’indipendenza energetica dell’Europa dalla Russia. E dell’Italia.
Nel 2020, nella seconda guerra azero-armena, il governo di Baku si è ripreso il territorio perso e solo il Karabakh è rimasto sotto controllo armeno, un’«isola» in territorio azero, collegata con un corridoio stradale con l’Armenia (mentre gli azeri ottenevano facilità di passaggio attraverso il territorio armeno con il Nachicevan). L’accordo avvenne con la mediazione di Putin. Era prevedibile che ci sarebbe stato un terzo atto di guerra da parte di un Azerbaigian rafforzato economicamente e internazionalmente. L’avvicinamento agli Stati Uniti da parte del primo ministro armeno Pashinyan, oggi sotto accusa in Armenia per aver confidato nella Russia, non ha cambiato il quadro geopolitico. Ora, non solo l’Armenia ha perso il controllo su un territorio storico, ma si sente isolata e fragile di fronte ai più di dieci milioni di azeri, alleati con la Turchia, temendo per se stessa. Anche perché ormai, purtroppo, nel quadro internazionale, i contenziosi si risolvono troppo spesso con le armi”.
Le guerre come modo arretrato e incivile per risolvere le questioni e non bastano vaghi proclami pacifisti per bloccare questa deriva, ma un reale rafforzamento del diritto internazionale.

Evviva i funghi!

Da ragazzino a casa mia arrivava Selezione Reader's Digest, rivista curiosa di piccolo formato, che si occupava di argomenti vari. Era un mensile legato alla versione originale statunitense. Leggo ora, per sapere che fine avesse fatto, che ha cessato di essere pubblicata nel 2007 e per altro ne avevo davvero perso le tracce.
Scopro ora, nella mia curiosità di lettura onnivora, l’esistenza ancora di una versione francese nel Québec, che ricorda moltissimo quella versione italiana piena di curiosità e ovviamente riflette la vicinanza anche del Canada francese con gli States.
Per capire la linea editoriale e lo stile propongo con un sorriso un elenco di doti dei funghi. In questi giorni ne ho mangiati una certa dose grazie al dono di amici appassionati nella loro ricerca, quest’anno particolarmente esaltati dalla copiosa nascita dei gustosi saprofiti. Ho una certa nostalgia di quando da bambino, specie nei boschi di Pila, si partiva tutto assieme in famiglia a caccia di funghi, gran parte dei quali tagliati in piccoli pezzi e messi a seccare al sole. Ho poi stampata nella memoria una memorabile mattinata di ricerca sotto la pioggia con un caro amico purtroppo scomparso nella zona del Mont Avic (non era ancora Parco!). Fradici ma felici del buon bottino!
Per gli amanti dei funghi sintetizzo alcuni punti dell’articolo citato.
1. Les champignons triomphent: le marché global devrait atteindre 90 milliards $US d'ici 2028 (il était à 63 milliards en 2022). Les champignons de Paris (blancs et bruns, petits et grands) et les shiita-kés sont des variétés populaires qui comptent pour environ 90% des champignons consommés aux États-Unis. Le Canada est l'un des plus grands exportateurs du monde; les champignons de Paris comptent pour 90% de la culture (dont plus de la moitié est produite en Ontario).
2. Pauvres en glucides, riches en antioxydants et en vitamines B et D, ils constituent une source de protéines et sont un substitut abordable à la viande. Le steak, le blanc de poulet et le bacon se déclinent aujourd'hui dans des versions végé tariennes à base de champignons. En Allemagne, des climatologues ont montré qu'en remplaçant seulement 20% de la viande consommée par une protéine microbienne, le taux de déforestation pourrait diminuer de plus de la moitié d'ici 2050.
3. Les champignons créent sous terre un réseau de filaments, le mycélium, qui contribue à la décomposition des matières organiques végétales et animales, ajoutant ainsi des substances nutritives dans le sol. Suivant un schéma complexe d'impulsions électriques, ce réseau fait circuler de l'«information» qui permet aux arbres, par exemple, de se préparer à une invasion d'insectes.
4. Le plus grand champignon du monde (une colonie en fait) est un armillaria ostoyae (champi gnon couleur de miel) qui couvre une surface de 965 hectares dans les Blue Mountains, en Oregon. De son côté, le yarsagumbu (champignon chenille) originaire du Tibet est parmi les plus chers. Surnommé le «Viagra de l'Himalaya», il aurait des propriétés aphrodisiaques.
Vi risparmio la logica tiritera sui pericoli dei funghi velenosi, che periodicamente ammazzano qualche incauto che li coglie e li mangia. Così come evito di segnalare approfonditamente l’uso in psichiatria dei famosi funghi allucinogeni.
Scritte queste poche righe, resta inteso che la raccolta dei funghi è una passione, ma anche un mestiere. Ricordo un mio coscritto, che purtroppo é mancato, che con campava raccogliendo e vendendo funghi che raccoglieva anche all’estero. Così come, pensando a certe leccornie come i funghi fritti, non posso non evocare qui il ristorante ”da Giovanni” di Quincinetto, autentico tempio dei funghi.

Barbie si ricicla al cinema

Quando avevo letto di un film sulla bambolina Barbie (di questo si tratta, anche se esiste una certa reticenza ad ammetterlo), pensavo ad una melassa zuccherina di esaltazione targata Mattel.
Mi riferisco alla produttrice di giocattoli statunitense con sede a El Segundo, che è periferia di Los 
Angeles e ho visto la loro mega sede con i miei occhi. Si tratta per altro della seconda azienda del settore del mondo per fatturato dietro a Lego. Non stupisce che ora pensi al cinema, visto che la città dov’è nata, che ospita Hollywood, è un mecca del cinema piena di studios.
Su Barbie scriveva tempo fa Beatrice Manca su Fanpage: “A quasi 65 anni, Barbie è più in forma che mai. Il film di Greta Gerwig con Margot Robbie ha ridato nuova linfa a una delle icone del Novecento: la prima bambola adulta, inventata nel 1959 per ispirare le bambine di tutto il mondo a essere ‘tutto ciò che volevano essere'. La storia di Barbie ha attraversato i decenni: le donne cambiavano e Barbie cambiava con loro. Dietro questa fortunata invenzione c'è una donna: Ruth Handler, che fondò l'azienda Mattel insieme al marito Elliott e Harold Matson. Osservando la figlia giocare con i bambolotti ebbe una folgorazione e decise di creare una bambola adulta, ispirata alla tedesca Bild Lilli, con le forme da pin up e il nome della sua bambina. Nacque così Barbara Millicent Roberts o, per gli amici, Barbie”.
Barbie, che ha la fortuna di restare sempre giovane e bella, ha un anno meno di me e, anche se non ho mai giocato con le bambole, l’ho vista crescere - non di statura… - con me, essendo stato un giocattolo amato da molte delle mie coetanee e non solo. Visto che mia moglie Mara, ben più giovane di me, aveva in collezione di Barbie impressionante con tutti gli accessori vari che necessitavano, compreso quel poverino inutile di Ken, dipinto dal film con la giusta ironia.
Anche Mara era prevenuta al momento della visione e più avanzava il film e più era divertita dai messaggi “politici” a vantaggio del mondo femminile di cui il film trasuda. Direi una giusta esaltazione del ruolo femminile, senza certe sgradevolezze del femminismo duro e puro.
Osserva direi coerentemente l’articolo già citato: ”Barbie ebbe un impatto dirompente nel mercato dei giocattoli. Fino ad allora, infatti, le bambine giocavano con i bambolotti, immedesimandosi già nel ruolo di madre. Ma Ruth Handler (moglie del cofondatore della Mattel Elliot Handler) capì che la figlia e le sue amiche cercavano un giocattolo in cui immedesimarsi, non qualcosa da accudire”.
Ha scritto il sito Il Post: ”A livello di critica il film ha ottenuto soprattutto giudizi positivi, con qualche eccezione. Gran parte della critica l’ha definito molto divertente, sia per la sua capacità di prendere in giro la Mattel – l’azienda che produce le Barbie e anche il film – pur includendola in un ruolo centrale nella sceneggiatura, sia per la sua rappresentazione bonariamente assurda dei ruoli di genere. Per alcuni è un capolavoro: sull’Independent Clarisse Loughrey ha scritto che «Barbie è uno dei film mainstream più fantasiosi, immacolati e sorprendenti della memoria recente – una testimonianza di ciò che può essere raggiunto anche nelle viscere più profonde del capitalismo»”.
Ho letto critiche pro e critiche contro e queste ultime spesso oscillano fra snobismo e militanza politica, in cui spiccano gli antimericani d’ordinanza, spesso eredi dei cineforum dà Fantozzi che ulula contro la Corazzata Potëmkin (“una cagata pazzesca!”, che è stato per molti un riscatto contro certi intellettualoidi).
A me, ma direi in sintonia con mia moglie con cui - come dicevo - ho visto il film e ho discusso, Barbie è risultato una sorpresa: nulla di banale con molte riflessioni interessanti senza essere noioso o moraleggiante. Si sorride molto e penso che questa sia stata l’intenzione degli sceneggiatori e del regista e già si sa che Mattel porterà sullo schermo altri suoi giocattoli di grido. Tipo Barney il dinosauro viola, il popolare gioco di carte UNO, Major Matt Mason l’ astronauta giocattolo che ha ispirato Buzz Lightyear, Polly Pocket la linea di bambole in miniatura e Big Jim una delle figure più celebri degli anni 70.

L’addio alle cabine telefoniche

Mi mette tristezza la rimozione definitiva ad Aosta delle poche cabine telefoniche sopravvissute. Intendiamoci: morte erano già morte e restavano come cimelio del tempo che fu, investite senza scampo dall’incedere di sua maestà il telefonino, di cui siamo ormai schiavi. Ci pensavo in modo fulmineo, guardando una specie di annuncio mortuario affisso dalla Telecom sulle predestinate alla scomparsa con data di cancellazione, mentre rientravo al lavoro dopo aver dimenticato il telefonino sulla scrivania, ottenendo in una riunione di due ore uno strano spazio di libertà.
Impossibile spiegare ai giovanissimi che cosa siano state le cabine telefoniche nella vita delle generazioni come la mia. Erano l’unico legame con il mondo. Mi vedo, nella cabina che c’era alla pesa pubblica di Aosta, amoreggiare al telefono con la fidanzatina. Oppure in una delle cabine vista Arco d’Augusto, mentre detto una notizia quando ero giovanissimo corrispondente RAI. C’erano poi le cabine delle vacanze: quando ero al mare ad Imperia la mia preferita era vicino all’edicola dei giornali sul lungomare. In Valle d’Aosta la mappa mentale delle cabine (o dei telefoni a scatti nei locali) era esercizio di memoria, così come avere a mente i numeri di telefono, che ho ancora in testa, mentre oggi non so neppure il telefono dei miei figli, perché tanto ce l’ho registrato!
Trovo sul sito Upgo.news, scritto da Maya Sonetti, un riassunto mirabile della storia delle cabine, che funge ormai da epitaffio. Raccontata la storia avvincente delle cabine rosse inglese, vero e proprio arredo urbano del passato, e ricorda poi la storia italiana: “Le prime cabine telefoniche sono state installare in Italia (nelle più grandi città) nei lontani anni cinquanta, quasi 30 anni dopo l’installazione londinese. La prima cabina telefonica in Italia in venne installata il 10 febbraio del 1952, in Piazza San Babila a Milano. È curioso sapere che l’iniziativa dell’installazione non derivò dal Comune di Milano o da enti dello Stato, bensì dall’azienda concessionaria Stipel”.
Già la Stipel, ricordo confusamente quando ero bambino i miei genitori, con il severo telefono nero a rotella che campeggiava nell’ingresso di casa, che chiamavano le “signorine” della Stipel per mettersi in linea con il numero desiderato. Sembra il Giurassico e invece il tempo trascorso non è così eterno.
Più avanti scrive Sonetti: “Negli anni sessanta/settanta del XX secolo le cabine telefoniche italiane divennero un elemento immancabile delle città italiane. Basti pensare che solo nel 1971 in Italia vennero c’erano ben 2500 cabine e che alla fine degli anni settanta tale numero ammontava a 33000. Era l’epoca in cui le cabine telefoniche erano ormai largamente diffuse in tutte le città”. In tasca avevamo tutti il gettone o lo ottenevi con l’inserimento delle monete necessarie, che ad un certo punto sostituirono pure il gettone.  Ancora l’articolo: “Il 1976, invece, è l’anno in cui vennero usare le prime schede telefoniche prepagate. Al tempo era soltanto un esperimento che, però, ebbe un discreto successo tanto che negli anni successivi le schede aumentarono a dismisura. Oggigiorno, però, sono soltanto degli oggetti di collezionismo simili ai francobolli o alle banconote antiche”.
Dal telefono a disco si passò poi a quello a tastiera, mentre gli ultimissimi modelli – non solo più monopolio Sip-Telecom – avevano una forma più moderna. Fra gli anni Novanta e Duemila inizia la fine di queste cabine telefoniche e dei telefoni in esse contenuti e l’ultimo gettone telefonico venne prodotto il 31 dicembre 2001. Amen.
La vera fine tardò ancora, come annota Sonetti: “I telefoni pubblici, – e le cabine telefoniche annesse, – sono state considerate dalla Repubblica Italiana come non più strettamente necessari soltanto nel 2010. La decisione venne comunicata alla cittadinanza tramite una delibera dell’Agcom a sua volta pubblicata nella Gazzetta Ufficiale. Proprio alla fine del 2010 Telecom Italia decise di rimuovere tutte le cabine telefoniche presenti sul territorio dello Stato Italiano. Tuttavia l’intero processo venne considerato come molto lungo e difficile da svolgere, motivo per cui alla rimozione delle oltre 103.000 cabine presenti sul territorio dell’Italia nel 2011 (la rimozione doveva avvenire nell’arco di 4 anni e terminare nel 2015), Telecom preferì sostituire le cabine con quelle di nuova generazione. Molte cabine vennero comunque rimosse (nel 2012 si stimava il numero delle cabine telefoniche sul suolo italiano in 97.376), mentre la maggior delle restanti venne modernizzata.  Ciononostante, il Governo Monti decise di continuare la rimozione di tutte le cabine telefoniche tranne quelle presenti negli ospedali, scuole, caserme, aeroporti, stazioni. Telecom Italia, dal canto suo, continuò a modernizzare le cabine telefoniche italiane mettendo a punto la “Cabina telefonica intelligente”. Quest’ultima venne ufficializzata e installata per la prima volta e in via del tutto sperimentale a Torino, il 2 aprile del 2012. Oltre a offrire la possibilità di effettuare la chiamata verso un qualsiasi numero mobile o fisso, questa cabina includeva anche l’accesso al web a un serie d’informazioni utili alla persona”.
Tutto inutile: le cabine erano ormai nel braccio della morte e la definitiva decapitazione è segnata. Ogni tentativo di riuso ha assunto aspetti divertenti e purtroppo inutili: dalle serre urbane o fioriera alla cabina acquario, dalla libreria libera al microbar, da sede di un defibrillatore a stazione di ricarica per le bici elettriche. Niente da fare….

Un ricordo affettuoso di Giorgio Napolitano

Giorgio Napolitano, di cui piango la scomparsa alla fine di una vita intensa e piena di politica nobile e vera, è stato un esempio di rettitudine e pure un'amicizia preziosa. Ero capogruppo del "Misto" quando divenne presidente della Camera nel 1992 e resse per due anni quel ruolo nel pieno del marasma di "Tangentopoli". La frequentazione ravvicinata mi consentì di apprezzarne le doti professionali (la politica, con buona pace dei "borbottoni", ha una sua professionalità, che comporta studio e fatica) e umane. Poi io ero la "mascotte" della capigruppo ed il presidente - che non lesinava il suo sarcasmo con chi non gli risultasse proprio simpatico - ha sempre avuto con me un atteggiamento di simpatia.
Così è stato anche al Parlamento europeo, quando eravamo gli unici italiani presidenti di Commissione. Specie a Strasburgo, quando facevamo le petit déjeuner assieme, visto che andavamo allo stesso albergo, così capitava di ascoltarlo davvero "dietro le quinte", mentre nelle occasione ufficiali non sbagliava mai una virgola con quel suo understatement con bagliori di ferocia per chi non capiva o fingeva di farlo. Esisteva in lui la scuola da cardinale del vecchio Partito Comunista Italiano, come altri che conobbi come Nilde Iotti, Giancarlo Pajetta, Ugo Pecchioli. Ma a questo si accompagnava uno spessore culturale non solo fatto dalla Politica, ma da quella logica da intellettuale a tutto tondo che ormai sta scomparendo con quella generazione. Vorrei qui ricordare la sua profonda conoscenza del Federalismo e fui onorato quando mi chiese di far parte della sua Associazione federalista, proprio considerandola una patente di quella serietà che non dispensava in modo così facile. Per questo mi era spesso capitato di cogliere in lui quella amarezza per il crescere nella politica, anche in ruoli importanti, di "parvenu" senza sostanza e pure di ladri.
Lo votai con trasporto per il suo primo settennato e mi capitò spesso di incontrarlo. Sempre misurato e colto, ma - come mi è già capitato di scrivere - con sprazzi di umorismo partenopeo frammisto a quel distacco anglosassone, che gli ha creato odi e amori, come capita a molti politici di rilievo.
Mi fa piacere evocare altri momenti, quando ad esempio quando ero Presidente della Regione accolse con gioia al Quirinale il Premio Saint-Vincent di giornalismo nel solco di una tradizione purtroppo a scomparsa e la sua visita in Valle d’Aosta nel 2011 mi valse un abbraccio nell’aula del Consiglio da consigliere regionale semplice. Proprio in quella occasione disse cose importanti sulla nostra autonomia speciale, che ben conosceva e rispettava. Ascoltò poi e si complimentò un mio discorso nell’aula del Senato sul regionalismo e l’Europa, quando ero Capo della delegazione italiana al Parlamento europeo.
Ricordo come messaggio postumo per il futuro il passaggio memorabile di un suo discorso del 2014: "La critica della politica e dei partiti, preziosa e feconda nel suo rigore, purché non priva di obbiettività, senso della misura, capacità di distinguere ed esprimere giudizi differenziati, è degenerata in anti-politica, cioè, lo ripeto, in patologia eversiva. E urgente si è fatta la necessità di reagirvi, denunciandone le faziosità, i luoghi comuni, le distorsioni, impegnandoci in pari tempo su scala ben più ampia non solo nelle riforme istituzionali e politiche necessarie, ma anche in un'azione volta a riavvicinare i giovani alla politica valorizzando di questa, storicamente, i periodi migliori, più trasparenti e più creativi. Un tale impegno, volto a rovesciare la tendenza alla negazione del valore della politica, e anche del ruolo insostituibile dei partiti, richiede l'apporto finora largamente mancato della cultura, dell'informazione, della scuola”.
Ciao, Giorgio!

Condividi contenuti

Registrazione Tribunale di Aosta n.2/2018 | Direttore responsabile Mara Ghidinelli | © 2008-2021 Luciano Caveri