Far la morale al cornuto

Mamma mia quanti moralisti sulla vicenda torinese, resa pubblica con tanto di filmato finito sul Web certo non a caso, del futuro sposo che con un dolente e velenoso monologo ha scaricato la futura sposa. Gelido e assieme furioso lui, statua di sale lei senza reazione alcuna.
Moralisti di varia fatta che hanno dato bastonate a destra e a manca spesso a sproposito, mentre l’attenzione gossippara fa parte della nostra quotidianità e questo era un boccone particolarmente succulento e da commenti incrociati con risate annesse, meglio di certe giaculatorie. Ammiro chi se n’è tenuto fuori, ma per favore non impicchiamo chi si è interessato a quello che è un fatto di costume, che ha risvolti interessanti perché l’amplificazione via Social offre un’interessante visione…sociologica di come ormai siamo appesi al cellulare “nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia”, come dice a proposito la nota formula nuziale.
Giuliano Ferrara sul Foglio ha illuminato la scena meglio di quel telefonino che dava luce al povero cornuto, come si è autodefinito, anche se poi lei - intervistata ore dopo, quando aveva ripreso la favella - ha lasciato intendere che fedifrago era stato anche lui.
Ferrara: “Non è così triste come si dice la storia di Massimo Segre e Cristina Seymandi. La si può considerare un apologo scherzoso sui rischi del bovarismo più sfrenato, il preadulterio. Qualcuno doveva pur fissare il concetto popolarizzato in una campagna contro l’abbandono degli animali: non abbandonare chi ti ama. Vale anche per i cristiani. Sono tutte fantasie, certo, queste del farsela con un altro o con un’altra, e si ha il diritto femminile di considerarle una violenza privata, bolli carte e tribunali, ma sono anche testimonianze festaiole del fatto che alla reciproca fedeltà in amore è possibile tenere il giusto. Gli invitati si sono lamentati per essere stati coinvolti in una sceneggiata che in fondo, pensano, non li riguardava. Hanno le loro ragioni, forse non li riguardava”.
Prosegue il Direttore che ha acume su tutti i temi: ”Ma chi non era invitato e ha solo sentito e visto via media e social non può umanamente non aver sorriso di quella promessa di matrimonio saltata, della sua squisita inattualità, con omelia in cui il presunto fedifrago anticipato, addirittura una femmina, e bella, e libera, è invitato a farsi una vacanza a Mykonos, non già con il commercialista destinato a questo da progetti di nozze, ma con il suo avvocato presunto moroso. Perché amare vuol dire volere il bene dell’altro, ha detto il promesso in un gustoso intermezzo oratorio. Inutile arrabbiarsi o moraleggiare. Tutto sommato, meglio prima che dopo, con più carte più bolli e magari dei pupi in ecoansia da scoppiamento della famiglia”.
Mi fermo qui nella citazione.
Resta il fatto, scoperto dopo, di come l’intrigo amoroso abbia anche singolari vicende imprenditoriali e economiche, che incrociano lui e lei.
Tant’è che lei l’indomani è andata a lavorare nella società in comune e lui ha già preannunciato che potrebbe essere che, a baruffa finita, si ritroveranno a collaborare in qualche modo, ma basta cuoricini, solo cuori infranti.
Le puntate future avranno meno clamore e l’ovattata borghesia torinese fra spiagge e montagne avrà da dire nel chiacchiericcio pettegolo per un po’ di tempo, aspettando che i mancati sposi trovino altre storie meno glamour e finiscano nel dimenticatoio. Come forse (la paternità non è certa) diceva Andy Warhol: “Prima o poi tutti hanno il loro quarto d'ora di notorietà”.
Divertente, infine e a futura memoria, il commento di Evelina Christillin, torinese si stirpe valdostana, quando dice che quanto è avvenuto dimostra che i piemontesi non sono - come da nomea - falsi e cortesi…
 

Saper sorridere

«Una risata vi seppellirà»: è questa una frase dell’ottocento attribuita all’anarchico Michail Bakunin, personaggio storico interessante.
Si tratta di una frase, quella iniziale, che mi ha sempre divertito per la sua carica beffarda, essendo nel secolo successivo espressione scherzosa della parte buona del famoso Sessantotto, che la scrisse sui muri. La ricordo riecheggiare anche nel 1977, quando si creò un nuovo Movimento giovanile, infine sprofondato nei terribili Anni di Piombo, in cui c’era poco da ridere.
Già, c’è poco da ridere, purtroppo, anche oggi. Viviamo tempi incerti e devo riconoscere che mi ero convinto che il post pandemia sarebbe stata un’epoca piena di joie de vivre, ma poi è sopravvenuta la guerra e quella instabilità di vario genere che si è creata come conseguenza. In contemporanea come con un flash improvviso che illumini la scena è cresciuta la consapevolezza sul cambiamento climatico, questione già ben nota da tempo e la cui drammatizzazione (cosa diversa dal prendere sul serio il tema, come va fatto) ha creato una situazione di incertezza e persino il neologismo, che spero sparisca presto, “ecoansia”.
Credo lo si veda in maniera plastica in quest’estate, preannunciata da record, e che invece sembra in parte languire proprio per il clima di incertezze con l’inflazione che morde e – mi sia permessa osservarlo – con un Governo che macina provvedimenti che sembrano incoerenti gli uni con gli altri e questo genera quella sfiducia che si deposita come una polvere sulla vita quotidiana. Lo dico senza logica di schieramento, ritenendo da sempre che chi vince le elezioni viene scelto dai cittadini e dunque non solo è legittimo ma è del tutto doveroso che si assuma le sue responsabilità, governando.
La verità, anch’essa triste da dire, è che non ci si improvvisa e troppi dilettanti e talvolta solo militanti hanno preso leve di potere importanti non essendo sempre all’altezza delle aspettative che si erano create e questo tornerà indietro come un boomerang. Ma avverrà nel vuoto della politica italiana con un PD alla ricerca di sé stesso con una Elly Schlein che sembra arrivata dalla Luna e un Centro diviso in due parti destinate ad allontanarsi. Non parliamo del grillismo contiano, che ha ancora buone percentuali nei sondaggi e questo lascia del tutto sgomenti.
In autunno si capirà meglio lo scenario nella sua complessità e devo dire che invidio chi ha grandi ricette per il futuro. Per quel che mi riguarda spero solo che il processo di integrazione degli autonomisti valdostani faccia il giusto cammino prefigurato, perché mi sembra una scelta necessaria, strettamente collegata al futuro della nostra Autonomia speciale. Lo ribadisco in modo spoglio da ogni retorica, perché deve avvenire in modo semplice e naturale senza attorcigliamenti che farebbero perdere tempo e credibilità.
E il sorriso? Quello credo che sia importante mantenerlo. In momenti complessi e con sguardi all’avvenire con molte inquietudini l’idea di piombare nella cupezza non mi appartiene. Sarà per carattere o frutto della mia educazione, ma ho sempre ritenuto che vedere nero non serva a niente.
C’è una bella poesia di un poeta francese, di cui consiglio di leggere la vita coraggiosa e generosa, che vorrei proporre:

Un sourire ne coûte rien et produit beaucoup,
Il enrichit celui qui le reçoit sans appauvrir celui qui le donne,
Il ne dure qu'un instant, mais son souvenir est parfois éternel,
Personne n'est assez riche pour s'en passer,
Personne n'est assez pauvre pour ne pas le mériter,
Il crée le bonheur au foyer, soutient les affaires,
Il est le signe sensible de l'amitié,
Un sourire donne du repos à l'être fatigué,
Donne du courage au plus découragé
Il ne peut ni s'acheter, ni se prêter, ni se voler,
Car c'est une chose qui n'a de valeur qu'à partir du moment où il se donne.
Et si toutefois, vous rencontrez quelqu'un qui ne sait plus sourire,
Soyez généreux donnez-lui le vôtre,
Car nul n'a autant besoin d'un sourire
Que celui qui ne peut en donner aux autres.
 
Raoul Follereau (1903-1977)

Il fumo che inquina

Sono della generazione che ha vissuto attorniato dal fumo di sigaretta, che era non solo un vizio ma uno statuts symbol negli anni Sessanta e Settanta.
I miei genitori, specie papà che era un vero tabagista, fumavano in tutte le circostanze anche con noi figli presenti. Si fumava al ristorante, al cinema, nelle riunioni politiche e - in senso più vasto - dappertutto.
Il 10 gennaio 2005, entrava in vigore la legge Sirchia (dal nome del ministro della Salute che la propose), che vietò il fumo nei luoghi pubblici chiusi. Uno choc cui i fumatori reagirono bene e che segnò un’importante discontinuità a vantaggio di chi, come me, non è mai stato fumatore, ma ha egualmente ingollato un sacco di fumo passivo.
Ora, dopo anni di calo del numero dei fumatori, si assiste ad una crescita.
Vi è un visibile riavvicinamento dei giovani alle sigarette (anche se l’identikit medio dei fumatore italiano è un adulto maschio di mezza età). Le donne, poi, che hanno iniziato a fumare molto dopo gli uomini per una serie di ragioni sociali, continuano a farlo e lo si vede nella quotidianità. Si è aggiunta ora sigaretta elettronica con miscugli fruttati e aromatici che usano anche i giovanissimi e sono oggettivamente anticamera al fumo di sigaretta.
Leggevo in queste ore su Le Monde dei danni ambientali dei mozziconi di sigarette. Ne vedo ogni giorno dappertutto e li vedo abbandonare senza alcun scrupolo da persone che li gettano ovunque.
Scrive Stéphane Mandard sul caso francese: ”En France, 23,5 milliards de mégots sont jetés chaque année dans l’espace public, selon le ministère de la transition écologique. A Paris, environ 350 tonnes sont ramassées tous les ans. Une pollution qui a un coût pour les collectivités, estimé à 100 millions d’euros par an, mais dont les conséquences sur l’environnement restent largement méconnues”.
Poi spiega in dettaglio e immagino che in Italia sia lo stesso: ”Seul un Français sur quatre sait que les filtres de cigarette sont en plastique (acétate de cellulose) et pas en ouate (coton), comme le croit un Français sur deux, selon une enquête réalisée en 2022 par l’institut BVA pour l’association ACT-Alliance contre le tabac, qui fédère une vingtaine d’organisations dont la Ligue contre le cancer. Un fumeur sur cinq pense même que les cigarettes, qu’elles soient classiques ou électroniques, sont biodégradables. « La dégradation d’un mégot peut prendre jusqu’à douze ans », avertit un panneau sur la très fréquentée jetée d’Arcachon”.
È un Comune francese sull’Oceano dove si è sviluppata una campagna, perché un mozzicone lasciato in mare è ancora peggio: ”Au contact de l’eau, le filtre se dégrade en micro- et nanoplastiques. Un mégot de cigarette peut contaminer jusqu’à 500 litres d’eau, rappelle le ministère de la transition écologique. Et pas seulement en particules de plastique. Il relargue aussi dans l’environnement des milliers de substances chimiques toxiques : la nicotine en premier lieu, mais également des métaux lourds (arsenic, mercure, plomb) ou encore de l’ammoniac".
Una vera schifezza che inquina anche le nostre montagne. Il dato mondiale fa paura: ogni anno vengono gettati a terra oltre 766’000 tonnellate di mozziconi. I miliardi di sigarette che vengono consumate dai fumatori in tutto il mondo.
Ma anche la sigaretta elettronica fa la sua parte: ”Dans le viseur des associations figurent également les cigarettes électroniques et leur version à usage unique, les fameuses puffs : très prisées des adolescents avec leurs tubes colorés et leurs parfums cola, fraise ou bubble gum, elles sont jetées une fois la centaine de bouffées disponibles consommée. « Elles sont de plus en plus retrouvées lors des collectes organisées sur les plages », témoigne Marion Catellin, la directrice d’ACT. Composées de plastique, de batteries en lithium et contenant elles aussi nicotine et métaux lourds (mercure, plomb, brome), « elles représentent un risque encore plus grand pour l’environnement », estime Marion Catellin”.
Bisognerà regolamentare meglio la materia.
L’Italia è, intanto in ritardo sulle cicche di sigaretta, mentre l’esempio francese è interessante: ”Concernant les mégots de cigarette, la France est en avance sur ses voisins. Elle a été la première à transposer la directive européenne sur les plastiques à usage unique qui contraint les producteurs de tabac à prendre en charge les coûts liés au nettoyage et au traitement des mégots. Une filière « pollueur-payeur » a été créée en août 2021 avec la mise en place d’un éco-organisme (Alcome) regroupant producteurs et distributeurs. Elle est censée verser 80 millions d’euros par an aux collectivités pour financer le ramassage et le nettoyage.(…)
Le gouvernement lui a assigné l’objectif de réduire « au minimum de 40 % » d’ici à 2027 le volume de mégots jetés dans l’espace publique et de 20 % entre 2022 et 2023”.
Per ora le cose non vanno bene e apposite campagne informative verranno proposte. In Italia si scelse con una legge del 2015 la strada delle multe per chi colto a gettare a terra i mozziconi, prevedendo una sanzione amministrativa pecuniaria, il cui importo può andare da un minimo di 60 euro ad un massimo di 300 euro. Immagino che nei fatti i fumatori sinora puniti si possano contare sulle dita di una mano…
Così come è largamente lettera morta la parte della stessa legge, che prevedeva che i Comuni predisponessero “nelle strade, nei parchi e nei luoghi di aggregazione sociale di appositi raccoglitori dei mozziconi dei prodotti da fumo”.

I molti dubbi sull’Unesco

Confesso le mie colpe: anni fa e ancora di recente ho perorato la causa del riconoscimento del popolo walser come patrimonio immateriale dell’umanità dell’Unesco con incontri vari. Confesso la mia delusione nel non capire certi meccanismi, che fanno sì che ultimi arrivati nelle richieste schizzino in cima e taglino il traguardo. Lo si è visto anche nella trafila sinora infruttuosa della candidatura del Monte Bianco, tanto da rendermi sempre più scettico.
Intanto, Unesco è diventato un erogatore di riconoscimenti di vario genere, oltre a patrimonio mondiale, tipo il registro della Memoria del mondo, il patrimonio sommerso dell’umanità, il programma l’Uomo e la Biosfera
L’Unesco ha fino ad oggi riconosciuto un totale di 1157 siti (900 siti culturali, 218 naturali e 39 misti) presenti in 167 Paesi del mondo. Vi invito a scorrere l’elenco con riconoscimenti che stupiscono o fanno ridere.
Ecco perché ho letto con interesse due articoli scritti sul Corriere da due personalità veneziane, miei vecchi amici: Renato Brunetta e Paolo Costa sulle recenti minacciose denunce sul futuro della città lagunare espresse da Unesco, dopo visita apposita.
Brunetta: « I tre ispettori che hanno riferito agli uffici dell’Unesco, in una visita di quattro giorni hanno visto e capito tutto, specialmente dove noi italiani abbiamo sbagliato. Hanno dettato 50 raccomandazioni (oltre 12 per ogni giorno di visita) all’Italia al fine di mantenere l’«Eccezionale Valore Universale» del sito.
L’Italia ha risposto, con pazienza, a tutte le 50 raccomandazioni. Le abbiamo prima discusse con i «portatori di interesse», con organismi scientifici e associazioni. E il sindaco si è prodigato in incontri con i governi che si sono succeduti. Ma non è bastato. Già il titolo del documento che dovevamo consegnare all’Unesco non ci piaceva: «stato della conservazione del sito». Per la Costituzione, la Repubblica Italiana «tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione», e la «tutela» è molto di più della «conservazione».
Venezia è bene tutelata, dalle azioni che il Paese ha messo in campo, ma soprattutto dalla passione dei suoi abitanti e degli italiani tutti. È l’amore per Venezia, condiviso da milioni di persone nel mondo, il suo principale «Eccezionale Valore Universale». Quindi no, non la chiuderemo alle visite: il flusso dei visitatori, anche grazie alle nuove tecnologie, sarà regolato, non interrotto.
Venezia nasce sul mare e con il mare convive. Se il livello del mare sale, come abbiamo sempre fatto, ci adatteremo. Il flusso della marea viene regolato dal Mose, non è stato permanentemente interrotto. Grazie al Mose siamo la città costiera più sicura del Mediterraneo almeno per i prossimi 80 anni. L’ingresso delle navi a Venezia viene regolato dalle necessità ambientali e sono stati eliminati gli eccessi (le grandi navi passeggeri), ma non chiuderemo il porto, che continuerà a generare posti di lavoro e a sostenere l’economia. L’industria di Porto Marghera si è già adeguata alle regole ambientali e, mentre rimediamo ai danni del passato, stiamo attraendo industrie «verdi». Venezia oggi vuole raddoppiare il proprio già eccellente polo universitario, per contribuire alla rigenerazione sociale ed essere fucina di nuovi talenti, una «città campus», moderna e vitale.
Il documento Unesco dice che non è chiara la strategia complessiva per Venezia: evidentemente non l’ha compresa. La «governance» di Venezia da sempre è materia complessa, e coinvolge non solo il governo e le sue articolazioni, ma anche il Parlamento, il consiglio regionale, i consigli comunali, i cittadini insomma. Vengono sempre ascoltate le voci delle istituzioni internazionali, e tutto viene analizzato e dibattuto alla luce del sole. Tuttavia, l’Unesco chiede, con ripetuta arroganza, che sia il suo ufficio di Parigi ad avere l’ultima parola sulle scelte operate. Non sarà così, questo non rientra nel mandato della Convenzione del 1972, della quale l’Italia fu tra i promotori, come è oggi tra gli Stati membri più impegnati a sostenere le attività dell’Unesco”.
Brunetta ha ragione e così Paolo Costa sul Corriere Veneto: ”Ci risiamo. Qualche mese prima della 45esima riunione del Comitato per il Patrimonio Mondiale dell’Unesco, che quest’anno si riunirà a Riyadh (Arabia) in settembre, viene messa in agenda la proposta di iscrivere Venezia nella Lista dei siti «in pericolo». Non diversamente dal 2021, prima della 44a riunione prevista a Fuzhou (Cina), ma tenutasi online, dal 2019, prima della 43esima di Baku (Azerbajan), e magari anche prima. 
Questa volta Venezia dovrebbe andare dietro la lavagna per non aver seguito le indicazioni nel contenimento del turismo di massa, nel perseguimento di progetti di sviluppo, e per non meglio specificate inadempienze relative ai «cambiamenti climatici». Nessuna cognizione del fatto che, forse, il turismo di massa prospera proprio per la strategia Unesco: conservare le pietre frutto del «genio dei padri» per farle visitare a soddisfazione della «curiosità dei foresti»; eppure dovrebbe esser chiaro che il bollino Unesco viene cercato e ottenuto - da ultimo, nel Veneto, dalle Colline del Prosecco e da Padova Picta - per aumentare i visitatori. Conservazione cieca dei monumenti e via libera ai turisti che in destinazioni come Venezia viene perseguita dall’Unesco anche impedendo ogni “sviluppo” che, creando alternative all’economia turistica, mantenga viva la comunità insediata”.
Costa, già sindaco di Venezia e mio collega in Europa, cita in modo puntuale tutte le iniziative che non piacciono a Unesco, che invece sono frutto di progettualità decise e ponderate dagli esponenti eletti democraticamente per salvaguardare Venezia e consentire la vitalità del tessuto economico e sociale. Per poi concludere: ”In questa condizione la cosa migliore da fare – lo scrivo dopo averci pensato a lungo - è che Venezia si auto escluda dalla Lista del patrimonio mondiale gestita dall’Unesco. Senza polemica. Almeno temporaneamente. Per il bene di Venezia e per quello dell’Unesco. Venezia non ha bisogno del bollino Unesco per attirare visitatori. Non diminuirà il suo «eccezionale valore culturale» perché questo non verrà più certificato dagli ispettori”.
Che Unesco ragioni nella sua espansione autoconservativa che crea perplessità e forse ha ragione chi incomincia a ragionare su costi e benefici di questa organizzazione internazionale.
Lo dice con la solita foga un altro veneziano mio amico, Massimo Cacciari, già sindaco anche lui di Venezia: "L'Unesco è uno degli enti inutili più costosi sulla faccia della Terra... Sparano giudizi senza conoscere e senza sapere, procedono decretando pareri a destra e a manca, di cui è bene disinteressarsi: sono una baracca di 'mangiapane a tradimento', non tirano fuori un soldo, non danno un finanziamento per interventi reali, sanno solo decretare... Come se Venezia avesse bisogno dell'Unesco per essere un bene dell'Umanità!".

Lévy e l’Africa

Seguo da tempo quanto scrive Bernard-Henri Lévy su Le Point, nel solco di una lunga storia di mio interesse per questo filosofo, scrittore, giornalista sin dai tempi del Liceo, quando era uno dei nouveaux philosophes, gruppo che mi incuriosiva per l’anticonformismo e per la capacità di comunicazione.
Nel filone della difesa dei diritti umani Lévy si è sempre distinto e in questi mesi si batte a favore dell’Ucraina, dimostrando disgusto - che condivido - per chi ha il coraggio di difendere Putin e la Russia.
Questa settimana se la piglia giustamente con quei capi di Stato africani volati già tempo fa e di nuovo in queste ore a San Pietroburgo a baciare la ciabatta al dittatore russo, mentre in Niger folle in piazza acclamano i militari golpisti e esaltano la Russia che li spalleggia.
Così scrive: “Cher amis d’Afrique. J’ai connu le Rwanda, au temps du génocide des Tutsis. J’ai couvert les guerres d’Angola, d’Érythrée, du Burundi. Je me suis mobilisé pour les génocidés du Darfour, les massacrés des monts Nouba, les chrétiens persécutés du Nigeria, les militants anti-apartheid d’Afrique du Sud.
Je me suis tenu aux côtés du peuple algérien quand les groupes islamistes armés y tuaient comme on déboise et j’ai soutenu l’aspiration à la démocratie de la société civile libyenne.
Comme j’aime, avant tout, la vie, j’ai aussi de beaux souvenirs d’une Afrique vivante et heureuse que j’ai arpentée, à différentes époques de mon existence, d’Abidjan à Dakar, de Lusaka à Nairobi.
Tout cela pour dire que les lignes qui suivent sont inspirées par l’amitié, le respect et le sentiment d’avoir, chaque fois que je l’ai pu, fait écho à vos justes combats.
Mais il y a, sur une partie de votre continent et, en particulier, dans sa zone subsaharienne, un aveuglement étrange, navrant et, à terme, tragique quant aux enjeux de cette guerre en Ukraine qui est l’événement géopolitique majeur où se joue notre destin commun”.
Poi ricorda: “J’étais à Odessa lorsque sont arrivés à Saint-Pétersbourg, pour le deuxième sommet Afrique-Russie, dix-sept de vos hauts dirigeants.
J’ai entendu l’un d’eux, président du Burundi, exprimer sa préoccupation face aux «ingérences occidentales» et à l’« iniquité » des « sanctions infligées à la Russie ».
J’ai observé Poutine qui avait peine à croire, lui-même, à la divine surprise de ce blanc-seing donné à sa guerre par un représentant de ce que Frantz Fanon appelait les damnés de la terre.
J’ai vu la stupeur des Odessites face au cynisme d’un homme qui venait, d’une main, en bombardant leur ville, de couper le corridor qui achemine vers vos pays, directement ou via l’Europe, 15 millions de tonnes de blé et de maïs par an et qui, de l’autre, vous faisait l’aumône de « 25 000 à 50 000 tonnes » qui ne viendraient, précisait-il, que « d’ici à trois ou quatre mois ».
Et j’ai été, moi-même, sidéré de constater que cette mascarade n’ébranlait pas outre mesure la position qui est celle de nombre de vos pays, depuis le premier vote des sanctions contre la Russie, à l’ONU, le 2 mars 2022 : au mieux, abstention et neutralité ; au pire, alliance avec le régime assassin”.
Più avanti Lévy li inchioda alla loro responsabilità: “Votre position est suicidaire. Car, en refusant de voir la réalité et en acceptant les mensonges de la propagande poutinienne, vous vous liez à un homme qui n’est pas votre ami.
Faut-il vous redire que la Russie pille, en ce moment même, l’or soudanais, l’uranium nigérien, le coton burkinabé ?
Faut-il vous rappeler comment, au plus fort de la crise du Covid, elle vous vendait au prix fort les rebuts de ses mauvais vaccins ?
Et que dire de la façon dont elle ridiculise votre jeunesse quand elle invite les jeunes de l’ANC sud-africaine à « observer » les pseudo référendums d’annexion des territoires pris à l’Ukraine et qu’elle leur fait saluer ces « formidables et merveilleux scrutins » ?
Et le groupe Wagner, responsable de crimes de masse en République centrafricaine, de tortures sans nombre au Mali et, peut-être, du coup d’État, au Niger, contre le gouvernement démocratiquement élu du président Bazoum, au nom de quelle macabre logique peut-il être vu comme l’instrument d’un « nouvel ordre multipolaire » aidant l’Afrique à se débarrasser des « séquelles du colonialisme » ?
Non, amis d’Afrique, la Russie n’est pas votre amie. Dans ceux de vos pays qui lui ouvrent les bras, elle reproduit ce qu’ont fait de plus atroce les colonisateurs français, anglais, belges, portugais ou allemands que vous avez chassés.
Et il y a, dans sa façon de pourfendre à grand renfort de rhétorique anti-occidentale l’impérialisme d’hier, une diversion grossière dont vous ne pouvez être dupes car elle n’a d’autre effet que d’occulter l’impérialisme, bien réel, qu’elle pratique aujourd’hui.
J’ajoute enfin, amis d’Afrique, que cet aveuglement est indigne de vous et de votre histoire.
Et l’on ne peut pas avoir mené tant de luttes de libération et tourner le dos à un pays, l’Ukraine, qui prend le même chemin et secoue ses chaînes à son tour.
Puisse le souvenir de vos illustres pionniers vous inspirer. Puissent les mânes des pères fondateurs de vos libres nations vous rappeler à votre propre mémoire.
La conclusione: “L’Afrique d’aujourd’hui n’est plus ni l’« Afrique fantôme » ni l’« Afrique ambiguë » de nos grands africanistes d’autrefois. Elle est le continent du futur et a, sur la scène du monde, des responsabilités historiques. Sa place est aux côtés des Ukrainiens”.

Pane al pane e vino al vino

Credo che alla fine sarebbe bene che, nella tenzone politica che non è roba da educande, si avesse il coraggio di dire le cose ”pane al pane e vino al vino”, antichissima espressione che rende l’idea.
Seguo con curiosità l’evolversi della polemica sui fascisti che ci sono in giro ed è meglio usare, per ovvio distinguo storico, il termine ”neofascisti”. Condivido la prima parte della XII disposizione transitoria e finale della Costituzione italiana in vigore, che dice: ”È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista".
Talmente chiara da essere rimasta, sin dal dopoguerra, sulla carta, consentendo ai nostalgici del Ventennio di godere della democrazia che essi stessi non volevano.
Vittorio Foa, uno dei padri della Repubblica, partigiano di Giustizia e Libertà e frequentatore della Valle d’Aosta, raccontò: “A me è capitato, una volta, di partecipare a una trasmissione televisiva insieme ad un senatore fascista [Giorgio Pisanò, parlamentare dell’Msi, volontario nella Xª Mas] che faceva dei grandi discorsi di pacificazione: ”In fondo eravamo tutti patrioti… Ognuno di noi aveva la patria nel suo cuore… », ecc. ecc. Io lo interruppi dicendo: «Un momento. Se si parla di morti, va bene. I morti sono morti: rispettiamoli tutti. Ma se si parla di quando erano vivi, erano diversi. Se aveste vinto voi, io sarei ancora in prigione. Siccome abbiamo vinto noi, tu sei senatore» .
Ragionamento limpido, cui si aggiunge una riflessione
Trovo insopportabile che ci siano neofascisti che sono di tutta evidenza tali per certi discorsi che fanno, che usano il mascheramento per non dirlo, sapendo bene che fare dichiarazioni pubbliche non gioverebbe loro. Per cui restano in uno spazio borderline, ma senza mai esplicitare le proprie convinzioni.
Per altro - diciamoci la verità - questo mimetismo vale anche nella sinistra estrema per chi cela dietro all’ambientalismo e al progressivo la vecchia o nuova pellaccia comunista.
Estremismi nocivi, come si è visto nei totalitarismi che hanno alla fine sortito. Ci saranno state differenze apprezzabili nell’apparato ideologico e politico, ma alla fine le dittature vanno chiamate con il loro nome e senza infilarsi in distinguo da lana caprina.
Questa è l’eredità più importante del cosiddetto federalismo integrale, che per il resto ormai paga - anche se resta una delle sorgenti a cui un federalista deve abbeverarsi - i cambiamenti clamorosi nel percorso dell’integrazione europea posta di fronte oggi più che mai di fronte a problemi epocali in parte nuovi e come tali da approfondire oggi con soluzioni originali.
In Italia il federalismo è ormai uscito dal dibattito politico. Lo era stato più di vent’anni fa per l’ondata leghista che aveva scosso i partiti della cosiddetta Seconda Repubblica con la riforma del 2001 del Titolo V della Costituzione in tema di Regioni con riscrittura conseguente dell’articolo 5 in chiave autonomistica dei rapporti fra Stato e democrazia locale, nonché con l’aggiunta all’articolo 116 - che diede vita alle Autonomie speciali - della discussa Autonomia differenziata per le Regioni ordinarie.
Tema che suscita dibattito con la Sinistra che la votò che oggi la disconosce, rendendosi ridicola. Sinistra che in queste ore ha incredibilmente votato contro un emendamento in materia finanziaria sul tema in questione a tutela delle Autonomie speciali, lasciando tutti perplessi per questa scelta controcorrente.
Ernesto Galli della Loggia lo ha chiamato in un editoriale sul Corriere il ”germe della faziosità” e cioè ”la mancanza di senso della realtà e aggressività verso l’avversario considerato un nemico a prescindere”. In questo gioco delle parti, a seconda che si sia in maggioranza o in minoranza, si perde il senso delle cose e il federalismo - avvicinatosi per un attimo come possibile destino della Repubblica - è affondato negli opposti estremismi. Estremismi con logica da sfasciacarrozze à tour de rôle. Spunta, intanto, l’elezione del Premier, che senza i contrappesi di reali poteri dei territori sarà un vero e proprio rischio.

Quelle estati

“Sai, figliolo, continuò, hai voglia di raccontare i tuoi ricordi agli altri, quelli stanno a sentire il tuo racconto e magari capiscono tutto anche nelle minime sfumature, ma quel ricordo resta tuo e solo tuo, non diventa un ricordo altrui perché lo hai raccontato agli altri, i ricordi si raccontano, ma non si trasmettono”.
(Antonio Tabucchi)

Ho incontrato per caso una mia amica di infanzia della “compagnia” della Spiaggia d’Oro di Imperia, una banda fatta di personalità così varie da farne un mix senza eguali. A ripensarci ringrazio i miei genitori di quelle lunghe estati sulla Riviera di Ponente nell’arco fra i miei pochi mesi dalla nascita e i miei vent’anni, quando poi coscientemente ho spezzato il cordone ombelicale e ho fatto altro.
Oggi, che sono votato a vacanze itineranti che mi portano a vedere sempre posti nuovi in un periodo breve, non posso tuttavia che pensare a quelle vacanze stanziali che mi hanno segnato e sono state una delle lezioni nella scuola della vita.
Si partiva alla chiusura delle scuole e si rientrava a Settembre (le scuole iniziavano il 1 ottobre). Già il viaggio, sino a che i percorsi autostradali non semplificarono le cose, era un’avventura lungo le strade statali con le macchine stipate. Una sarebbe tornata in Valle d’Aosta con papà veterinario, mentre la mamma casalinga tornava, avendo l’altra auto, nella Liguria della sua nascita con gioia che le si vedeva in volto.
I primi anni le tre sorelle con marito e cugini vivevano tutti nella casa dei nonni materni. Un clan poi spezzatosi con improvvida vendita della casa e diaspora in anonimi appartamenti.
Ma - ci pensavo dopo aver rivisto la mia amica - l’educazione sentimentale più importante fu la scoperta della vita sociale della spiaggia in quegli anni da bambino e poi da ragazzo. In una situazione strana, perché una villeggiatura lunga ti trasformava da turista in quasi local che acquisiva uno status intermedio fra “straniero” e autoctono.
In fondo gli ombrelloni - e il nostro era ovviamente in prima fila anno dopo anno - erano come un palcoscenico in cui si raggruppano storie personali e familiari diversissime con recite quotidiane che mai annoiavano. Ricordo mio papà, con l’eterna sigaretta in bocca, che raccontava barzellette che non so da dove diavolo traesse.
E intanto crescevo e da neonato nel battellino con l’acqua dentro diventavo costruttore di castelli di sabbia e poi protagonista di sfide sportive varie: dagli autodromi con le biglie ai racchettoni sulla battigia, dalle tenzoni a nuoto alla pesca con la fiocina contro le povere sogliole.
Infine si saliva sulla terrazza quando l’adolescenza accendeva gli ormoni e sortivano con i primi amori lettere romantiche al ritorno a casa. Con l’acquisto del motorino, la spiaggia diventava sempre più base di partenza con la scoperta della Liguria segreta dell’entroterra.
Poi si scalavano le scuole superiori
e le estati assumevano nuove coloriture e maggiori consapevolezza, ad esempio nello studio sociologico delle diverse età di chi era in spiaggia, degli intrighi familiari, delle nuove entrate di chi spuntava nella “nostra” spiaggia. Un mondo corale ricco di storie e aneddoti, che oggi sono ricordi che scaldano il cuore e accendono nostalgie buone e consolatorie per il tempo che passa.
Raramente ci sono tornato, specie con i miei figli in quelle visite sui luoghi cari che per loro erano solo noia per memorie per loro barbose è autocelebrative.
Ma i due figli più grandi, come una sorta di fil rouge, nei prossimi giorni saranno, per loro scelta, in quei luoghi per me così evocativi.
Chissà che un giorno, magari da nonno, non possa riproporre a qualche piccolino il ciclo della vita anche nella spiaggia in cui mi sono sentito protagonista.

I Sella, imprenditori-alpinisti e la Valle d’Aosta

Ho ricevuto in dono con grande piacere da Maurizio Sella, Presidente del Gruppo Sella, un libro da lui curato assieme a Teresio Gamaccio. Il titolo spiega tutto, così come la seppiata foto di copertina: “I Sella in Valle d’Aosta- Imprenditori e alpinisti fra Ottocento e Novecento”.
Il clima storico, che attraversa il tempo, lo si capisce sin dall’inizio della nota introduttiva di Pietro Crivellaro: “Scrivendo del giovane Quintino Sella che aveva compiuto la pionieristica scalata del Breithorn, l'abbé Gorret lo definì «un inglese di Biella». L'ascensione era avvenuta nel settembre 1854, prima ancora che nascesse a Londra l'Alpine Club, il capostipite dei club alpini. Il prete valdostano intendeva dire «un alpinista di Biella» perché a quel tempo erano tutti inglesi i forestieri che si spingevano sulle montagne della valle d'Aosta per scalarle. E l'abbé Gorret, enfant du pays e pungente intellettuale, nominato socio onorario del Cai per il suo ruolo decisivo nella prima scalata del Cervino dalla cresta del Breuil, era un intenditore che sapeva bene di cosa parlava”.
Già, i Sella - oggi giganti nel settore bancario e finanziario - furono il volto del nascente alpinismo italiano (anche se l’Italia politica non c’era ancora), che si contrapponevano ai grandi alpinisti inglesi che salivano le cime alpine.
Ma i legami con la Valle precedono e sono così spiegati: “I primi contatti della famiglia Sella con la Valle d'Aosta avvengono con Maurizio Sella di Giovanni Domenico (n. Sella di Valle Superiore Mosso 10 aprile 1784 - m. Biella 21 agosto 1846) che nel 1835 compie una scelta che porta a Biella il centro della sua attività laniera e della sua famiglia. I nuovi macchinari della rivoluzione industriale mossi dall'energia idraulica, introdotti nel Regno di Sardegna dal cugino Pietro Sella, avevano mutato radicalmente il sistema produttivo: era divenuta fondamentale la disponibilità di una maggiore quantità d'acqua per dare il moto alle macchine. Nel 1835 egli coglie l'occasione della vendita del "Filatore" da seta con annesso lanificio e albergo di virtù, costruito dal Santuario di Oropa sulla riva sinistra del torrente Cervo in Biella nel 1695, per dar lavoro agli indigenti. La vendita dell'immobile è associata ai diritti d'acqua derivata dal torrente Cervo; è un'opportunità che non si lascia sfuggire (…) Da subito il lanificio instaura rapporti commerciali con i territori confinanti e, sotto la direzione di Maurizio Sella, il lanificio vende i tessuti prodotti anche in Valle d'Aosta. Nelle lettere ricevute dal lanificio negli anni dal 1836 al 1847 compaiono i seguenti nominativi: Pierre Marie André di Aosta, Emanuele Ay-monod di Aosta, Jean Baptiste Pignat di Aosta, Joseph Lillé di Aosta, Laurent Boch ed Enrico Boch di Aosta, Jacques Joseph Vuillermin di Aosta, Antoine De-lapierre di Aosta, Vincenzo Erba di Aosta, Fratelli Gervasone di Aosta, Damier Liboz di Aosta, Jean Marie Pivot, Marianne Pivot, Giovanni Battista Pignet di Aosta, Pierre Pivot di Aosta, Michele Fracchia di Saint Vincent. Nelle lettere si parla della richiesta di tessuti di lana di varia qualità e colore, di pagamenti, di recuperi di alcune somme per il fallimento di negozi e della consegna di pezzi di ghisa per la riparazione dei macchinari del lanificio”.
Ma, fatta questa premessa, si raccontano poi le avventure alpinistiche delle successive generazioni e del ruolo di Quintino Sella, cui si deve la nascita del Club Alpino Italiano, che oggi penso stenterebbe a comprendere - da conservatore qual era - la sterzata alla sinistra estrema di parte della dirigenza del sodalizio alpinistico, che è pure ente pubblico non economico e dovrebbe garantire neutralità politica.
Quel che è certo è che nel DNA dei discendenti Sella la montagna è impressa e li ha spinti su tutte le montagne del mondo, passando il testimone di padre in figlio.
Ho ringraziato il Presidente Sella in una lettera in cui ricordo un legame con la mia famiglia e che qui riporto: “Si deve ad un Sella la responsabilità di un ramo ormai valdostano dei Caveri. Lo si legge in una Tesi di laurea presso l’Università di Firenze: “La classe dirigente liberale e lo sciopero: La Relazione della commissione parlamentare sugli scioperi del 1878. Relatore Professoressa Gigliola Dinucci, Candidata Arianna Michelini”. In sostanza – come per altro ben ricostruito dallo storico Guido Quazza in un suo libro - il mio bisnonno Paolo Caveri, sottoprefetto a Biella, organizzò un incontro fra lavoratori in sciopero e industriali tessili, suscitando le ire di Quintino Sella allora Ministro, che ne chiese la testa al collega dell’Interno. Così venne trasferito ad Albenga e poi ad Aosta, dove conobbe la mia bisnonna Ermine Antoniette De La Pierre Zumstein ed ebbero un figlio, mio nonno René.
Cito due passaggi della tesi: “Ad esempio, soltanto pochi giorni dopo la sua nomina a ministro dell'interno Ubaldino Peruzzi fu informato con una lettera da parte di Quintino Sella di "scioperi di operai che nocquero nel Biellese alle fabbriche del Mandamento di Mosso' delle zone che il Sella conosceva molto bene in quanto qui aveva avuto i natali e qui la sua famiglia era titolare di diversi opifici tessili. Nella lettera, del 31 dicembre 1862, Sella si dice molto preoccupato dello stato del conflitto e tuona contro il sottoprefetto Caveri, reo di essersi intromesso nei rapporti fra operai e padroni tentando di risolvere la vertenza senza essere stato per questo richiesto dai fabbricanti. Dalle parole di Sella emerge una certa amarezza nei confronti delle popolazioni operaie del biellese che "furono fin qui tranquille e [fra le quali] vi furono pochissimi episodi di perturbazione", e che ora invece stanno purtroppo mostrando la loro parte peggiore con un atteggiamento apertamente conflittuale verso i loro datori di lavoro.”
E poi: “ Riprendendo poi un'idea che era stata anche del Sella alla fine degli anni Sessanta, il ministro auspica che il compito delle autorità governative in merito allo sciopero si limiti alla tutela dell'ordine pubblico, evitando l'intromissione diretta fra operai e industriali, prendendo addirittura impegni che poi non potrebbero essere rispettati con grande danno per la credibilità stessa delle autorità; un simile atteggiamento era infatti già costato la rimozione, sollecitata fra gli altri anche da Sella, del sottoprefetto di Biella Caveri intromessosi nella vertenza fra operai e fabbricanti in occasione dello sciopero del 1862 in uno dei lanifici del biellese”.
Poco tempo dopo, d’accordo anche il suo prestigioso avo, le trattative con i sindacati divennero la normalità!”

Amici uguali o diversi

Non camminare davanti a me, non posso seguirti. Non camminare dietro di me, non posso essere una guida. Solo cammina accanto a me e sii mio amico (Albert Camus)

L’estate è la stagione ideale per ricordare vecchie amicizie sparite per via di luoghi non più frequentati e a causa della rottura rappresentata dal tempo trascorso.
Lo dico con mestizia, ma anche con la gioia generata dal solo ricordo di persone care, che hanno inciso su di me e spero che sia accaduto loro la stessa cosa.
D’altra parte le amicizie, tranne rari casi di resistenza, vanno e vengono in un flusso di cambiamenti e novità che è di certo arricchente per la propria vita.
Capita di trovare vecchie agendine telefoniche e di chiedersi dove saranno finite alcune di quelle persone un tempo vicine se non intime e poi archiviate nel cervello sezione ricordi del passato. Sapendo che in certi casi la loro impronta è indelebile come certi fossili imprigionati nelle rocce.
In tempo di Social con queste strane amicizie virtuali ci si pone legittimamente un problema, affrontato su Le Monde da Marion Dupont, da cui traggo qualche spunto.
L’interrogativo è secco: “Les relations amicales peuvent-elles survivre au dissensus?”.
Poi si aggiunge: “Si la bienveillance envers les idées de ses amis est importante, les désaccords peuvent engendrer des difficultés de communication.
Ce n’est presque rien, un grain de sable dans une machine autrefois si bien huilée. Soudain, de minimes points de friction sont apparus entre vous et vos amis, symptômes d’une divergence d’opinions. Il y eut d’abord un désaccord mineur sur le lieu des prochaines vacances (prendre l’avion pour rester au bord d’une piscine est-il bien nécessaire ?) ; puis une escarmouche à la suite d’une blague aux accents sexistes. Rien qui ne puisse faire l’objet d’une discussion apaisée entre adultes ; rien qui ne mette en danger une amitié.
Mais, dans l’interstice creusé par le désaccord entre les camarades, un doute s’est logé. Peut-on vraiment être ami avec quelqu’un qui ne partage pas nos idées ? Si, dans la fiction, les tandems contrastés ont du succès, de Sherlock Holmes et le docteur Watson à Astérix et Obélix, qu’en est-il dans la réalité, lorsque des divergences dans les valeurs et dans les idées se font jour ?”.
Bella questione per chi fa politica e rischierebbe di ritenere che l’amicizia significhi amico=proprio elettore o - pensiamo ai dissidi sui vaccini - che fra chi è pro e chi è contro si possa creare un insanabile dissenso è una rottura secca. Ipotesi quest’ultima talvolta per me realmente verificatasi.
Sulla politica che crea dissensi fra amico così si esprime la Dupont: ”La dissension politique peut effectivement mener au conflit et engendrer des difficultés de communication entre amis, voire une souffrance psychologique. Résultat, une majorité d’individus (61 %) déclare dans la même enquête préférer une discussion politique avec « quelqu’un qui a plutôt les mêmes idées » que lui, et 70 % des personnes interrogées indiquent fréquenter des amis du même bord politique qu’elles. Au sein des relations affinitaires comme le couple ou l’amitié, « l’homogamie politique reste le modèle que l’on préfère, et c’est d’ailleurs le modèle majoritaire », remarque l’autrice de Toi, moi et la politique. Amour et convictions (Seuil, 2008).
Cet écart entre les discours et les pratiques n’est d’ailleurs pas le même partout : selon les travaux d’Anne Muxel, l’intolérance aux opinions différentes des proches est par exemple plus grande dans les milieux de gauche que dans les milieux de droite”.
Interessante pensare che chi è a Sinistra sia meno tollerante a certe differenze di vedute in politica. Personalmente credo che ciò valga, prescindendo dalla vecchia categoria fra Destra e Sinistra, rispetto all’apertura mentale delle persone, che funziona se non si è imprigionati nelle prigioni dell’ideologia e del radicalismo.

Il PNRR centralista

In questa seconda parte della Legislatura regionale mi sono ritrovato in maniera più compiuta a gestire la delega sul PNRR. A proposito ho scritto che è come ritrovarsi seduto su di un ottovolante e cioè in uno stato di perenne fibrillazione con decisioni che mutano lo scenario.
Per chi non conoscesse di che cosa si tratta ricordo in breve e senza troppo approfondimento che il piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR: acronimo orribile che evoca una pernacchia) è il programma con cui l’Italia ha deciso di gestire i fondi cospicui di Next generation Eu. Si tratta dello strumento di ripresa e rilancio economico introdotto dall’Unione europea come risposta rispetto alle conseguenze economiche e sociali causate dalla pandemia. Redatto dall’allora governo Draghi e approvato dalla commissione europea nel giugno 2021, il PNRR italiano ha una struttura articolata e si è trovata ad impattare con successivi due cambi di Governo, il disastroso Conte e l’ondivago Meloni.
Il Piano prevede sei missioni, organizzate in componenti, ognuna delle quali comprende una serie di misure, che possono essere riforme normative o investimenti economici. Dalla transizione ecologica a quella digitale, dalla sanità alla scuola, dai trasporti alla giustizia: le materie che sono vastissime contano, in settori molto diversi e direi tentacolari, centinaia di misure, di riforme necessarie e di investimenti programmati incanalati in una rete burocratica impressionante e controlli asfissianti tra piattaforme che non funzionano, risposte inefficaci alle richieste di chiarimento, spada di Damocle che pendono su chi se ne occupa.
Ciascuna di queste iniziative ha diverse scadenze da rispettare lungo uno o più anni dal 2021 al 2026. Nel frattempo la guerra in Ucraina ha innescato nuove ricadute sull’economia e spicca la crisi energetica, mentre in parallelo le emergenze ambientali hanno purtroppo dimostrato la loro assoluta centralità. Così come è apparso evidente di come la miriade d’interventi si incrocia con tutti i fondi europei e con i finanziamenti statali con un impatto notevole sui diversi livelli della democrazia locale, in primis le Regioni.
Il dato iniziale che come Valle d’Aosta abbiamo sbandierato nelle sedi ufficiali anche a costo di apparire antipatici è la scelta rigidamente centralistica sin dall’inizio e questa scelta non è mai stata corretta fino in fondo. Qualche barlume sembrava emergere dal nuovo Ministro, Raffaele Fitto, che ha proposto un accordo Regione per Regione su cui noi abbiamo concordato, sempre che non sia uno strumento dirigistico da Roma in una logica di fondo di intromissione in competenze regionali con una logica sostitutiva che non starebbe né in cielo né in terra. Mentre si era in attesa, concordata immagino con l’Unione europea, è esplosa – scusate il termine guerresco – una corposa riprogrammazione mai concordata con le Regioni e con il sistema degli enti locali.
Così ci è toccato scrivere: “In primo luogo si osserva come, ancora una volta, le Regioni e le Province autonome non sono state coinvolte nella definizione del documento (pur trattandosi allo stato attuale di una bozza per la diramazione), benché, come ampiamente dimostrato sino ad ora nell’attuazione del PNRR le stesse giochino un ruolo fondamentale per l’attuazione e per le necessarie sinergie da attivare sui territori per massimizzarne l’efficacia. Appare, quindi, quanto mai opportuno e urgente un confronto sul  documento anche al fine di assicurare un allineamento e una coerenza anche con le progettualità e le programmazioni regionali”.
Confronto non facile, perché – come abbiamo scritto – “In termini generali, si segnala come le diverse macrocategorie di proposte di modifica del piano siano non sempre qualificate e quantificate: ciò determina notevoli difficoltà tanto a livello di formulazione di proposte di revisione quanto a livello di richieste di chiarimento”.
Importante per la Valle d’Aosta è il tema energetico nel quadro del progetto presente nel documento e chiamato REPowerEU: “Colpisce e crea forti perplessità il fatto  che  il documento – nell’ambito delle fonti rinnovabili  non presti alcuna attenzione alla fonte idroelettrica, che rappresenta la principale fonte energetica rinnovabile in Italia. In considerazione del fatto che il parco idroelettrico italiano in larga parte ha più di quarant’anni, la previsione in seno al nuovo capitolo del PNRR dedicato al Repower di attività di revampig e di repowering appaiono indispensabili al fine di consentire di ottimizzare e di incrementare le performance degli impianti già esistenti, andando, da un lato, a sostituire componenti datati e inefficienti con nuove tecnologie più moderne, in grado di prolungare la vita utile degli impianti e di ripristinare le prestazioni iniziali, dall’altro, di incrementarne la potenza attraverso prestazioni tecnologiche più performanti. Al fine di assicurare il pieno sviluppo del mercato dell’energia rinnovabile è necessario inoltre introdurre soluzioni che- in modo non ambiguo – garantiscano una soluzione alla riassegnazione delle concessioni idroelettriche affinché si crei un sistema equo di rinnovo, per sbloccare fin da subito gli investimenti e garantire la tutela degli impianti idroelettrici”.
Nelle osservazioni più generali tanti gli altri argomenti: dall’idrogeno alle comunità energetiche, dalle risorse per la gestione del rischio di alluvione e per la riduzione del rischio idrogeologico ai progetti di Aosta per la rigenerazione urbana, dal Piano sui cambiamenti climatici ai pericoli alluvionali.
Vi è infine un tema forte e più generale a tutela della nostra Autonomia speciale, che si riferisce all’ipotesi che fondi del PNRR vengano sostituiti con fondi nazionali. Questo passaggio va chiarito perché spesso è già capitato in passato che si sia ritenuto che per le Autonomie differenziate certi trasferimenti con leggi di settore non dovessero avvenire e, in casi come quello esaminato, si tratterebbe di un’incomprensibile penalizzazione.
 

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