La facondia e i suoi fratelli

Che bello quando c’erano - e io li ho visti e vissuti - i comizi di una volta, quando anche nella piccola Valle d’Aosta centinaia e a volte migliaia (specie per i festeggiamenti post voto) venivano spontaneamente a seguire la politica e lo facevano senza spintarelle per esserci.
Le cose cambiano ed è inutile indugiare nei ricordi, che pure servono per scaldare il cuore e ciò consente di pensare che forse, a fronte di tempi difficili che si preannunciano, ci possa essere un ritorno di fiamma e di dignità. Nella storia valdostana ci sono stati alti e bassi fatti di oblio e di convinzione rispetto a quella voglia di essere e sentirsi comunità.
Ci si andava a suo tempo per passione e per fede politica ed erano i momenti in cui - parlerò di parole ormai desuete- si mettevano a confronto i discorsi degli uni e degli altri e si osservavano le rispettive capacità di tenere il palco e mantenere l’attenzione degli uditori.
Viene in mente “facondia”, che è la caratteristica di chi è facondo, dal latino facŭndus ‘eloquente, dalla parola facile’, derivazione di fāri ‘parlare’. Che finisce anche per avere una briciola di significato critico per chi…non la finisce più.
Chi parla in pubblico, guardando la platea, si accorge se gli scappa la mano e un segnale chiaro è quando non c’è silenzio in sala e si evidenziano segni di distrazione. Ma - specie per chi ha discorsi scritti, che sono una noia mortale - se non si coglie questa situazione si entra in una spirale del disinteresse.
Se si va a braccio l’attenzione è assicurato, sempre che non ci si perda. L’oratoria è un’arte antica, ma coi tempi le cose cambiano e nessuno può oggi rimpiangere certi discorsi torrentizi del passato, perché certa essenzialità oggi esiste e bisogna tenerne conto.
Se si entra nel dedalo dei sinonimi e dei contrari spuntano termini come eloquenza, ma anche logorrea e verbosità, ma al contrario non sempre la concisione è laconicità.
Diceva Cicerone, passato alla storia per le sue capacità oratorie, all’epoca oggetto di studio vero e proprio: “Il valente oratore deve essere un uomo che ha ascoltato molto con le proprie orecchie, ha visto molto, ha molto riflettuto e pensato, e molto ha anche appreso attraverso le sue letture”.
Aggiungerei che bisogna credere in quello che si dice. Chi parla senza avere la consapevolezza di quanto sostiene sa di falso a distanza. Lo sosteneva quel grande oratore che fu - anche nell’uso del mezzo radiofonico nascente - Winston Churcill: “L’oratore incarna le passioni della moltitudine. Per poter ispirare qualsiasi emozione, deve esserne lui stesso attraversato. Per suscitare indignazione, il suo cuore deve essere colmo di rabbia. Per muovere alle lacrime deve far fluire le proprie. Per convincere, deve credere. Le sue opinioni possono mutare man mano che le loro impressioni sbiadiscono, ma ogni oratore intende ciò che dice nell’istante in cui lo dice. Spesso potrà essere incoerente. Ma non sarà mai consapevolmente falso”.
Comunque sia, che sia sia avvezzi alla TV e su lavori con i Social, parlare in pubblico resta impagabile. Siamo animali…politici.

Elogio del pisolino

Oggi più che una parola sono un’insieme di parole, in genere sinonimi, che fotografano un fenomeno noto a tutti noi fin da bambini. Il famoso “pisolino”, che fa parte del lessico familiare e la cui semplice evocazione ci riporta piccolini.
Ne ricordo di assolutamente obbligatori, specie al mare a casa dei nonni durante l’estate, con tutti noi cugini imprigionati dopo pranzo sino alla prima adolescenza a dormire fra risa e lazzi sottovoce per non farsi sentire ed essere rimbrottati.
Si può usare anche pennichella, dal latino pendiculare, derivato di pendēre "pendere, reclinare il capo” sarebbe da dizionario “la breve dormita che si fa specie nelle prime ore del pomeriggio, dopo aver pranzato. Dicesi anche dormitina o appunto pisolino o anche pisolo, sonnellino, riposino o siesta. Quest’ultima definizione fa subito Spagna e sarebbe ‘meriggio’, per ellissi da hora(m) sexta(m) ‘ora sesta’ cioè mezzogiorno. Le lingue neolatine si inseguono fra di loro e creano catene linguistiche avvincenti.
Mio papà al mattino si svegliava prestissimo per partire in giro per le stalle con le sue pazienti bovine e tornava a casa per pranzo. Subito dopo sprofondava per qualche minuto in un sonno ristoratore. Lo stesso faceva, anche quando era già molto anziano, nonno Emilio, che era un singolare personaggio con manie igieniste in analogia con l’altro nonno René, fautore del metodo Kneipp con bagni curativi in acqua fredda.
Penso che queste paroline che designano il riposo postprandiale vadano sdoganate e con esse questa idea, quando si può fare, del piccolo sonno, che spezza la giornata. Mi capita qualche volta nei giorni festivi, quando finisco immerso in quel torpore da cui ti svegli senza sapere bene chi sei.
Ma attenzione! Rinvengo sul Web un primo pensiero: “Gli studi scientifici degli ultimi anni ci dicono che il riposino pomeridiano, la cosiddetta “pennichella”, fa bene al nostro cervello a ogni età, e non solo agli anziani, perché potenzia la memoria, la creatività, i riflessi, migliora l’umore e riduce lo stress – spiega l’esperto. – La pennichella più efficace, quella che fa bene al cervello, ha però caratteristiche specifiche e cioè non deve superare i 20 – 30 minuti, per non alterare il normale ciclo sonno-veglia”.
Con avvertenze altrove: “La pennichella post pranzo fa male alla salute. Lo dice uno studio presentato al Congresso della Società Europea di Cardiologia. In particolare a creare problemi al nostro organismo sarebbe un pisolino post pranzo più lungo di un’ora. Se la famosa siesta supera i 60 minuti, ecco che scatterebbe una correlazione con malattie cardiovascolari.
Secondo lo studio in questione, i sonnellini più lunghi di un’ora possono essere messi in relazione ad un aumento del rischio di morte per qualsiasi causa e in particolare un aumento delle probabilità che sorgano malattie cardiovascolari del 34% rispetto a chi non ha l’abitudine di riposarsi dopo pranzo”.
Alberto Sordi credo che non seguisse il precetto, ma superò tranquillamente gli 80 anni: “La pennica è sacra: un’ora e mezza a letto ogni giorno dopo pranzo. Sto disteso e godo nel sentire i clacson in lontananza. Quelli della gente che sta in macchina, in coda, suda, si affanna. Io ridacchio fra me e me e penso: ma ‘ndo annate?”.
Già, dove andiamo?

Attorno al "dovere"

"Dovere" è un parola semplice e difficile e può essere persino un verbo, che non considero desueto.
Dice la solita "Treccani", prima di infilarsi in un excursus filosofico dagli Stoici in poi: "Obbligo morale di fare determinate cose o concretamente ciò che l'uomo è obbligato a fare, dalla religione, dalla morale, dalle leggi, dalla ragione, dallo stato sociale eccetera".
"Eccetera" mi piace moltissimo, perché è mobile come l'orizzonte che si sposta senza mai raggiungerlo, in barba ai terrapiattisti.
Ma non divaghiamo. Poiché viviamo nell'epoca dei diritti - ed è un bene, per carità! - sarebbe bene sempre ricordare l'altra faccia della medaglia e cioè per ciascuno di noi l'incombere anche dei doveri.
Potrei - in un'arringa - citare per chiudere qui il famoso "abuso di diritto" così riassumibile, anche se forse bisogna leggere più volte la definizione: "Si può parlare di abuso del diritto quando si utilizza un determinato diritto, che l'ordinamento legittimamente riconosce in capo ad un soggetto, per finalità che non sono ricomprese in quel diritto stesso. Si tratta in sostanza di comportamenti di vario tipo e natura che hanno la funzione di alterare a proprio favore un diritto spettante al soggetto, andando aldilà dei limiti del diritto stesso".
Ne ho conosciuti che ne hanno approfittato e che sono allergici, invece, ai doveri. Li conosciamo tutti: sfuggono come bisce alle piccole a grandi cose della convivenza civile, che rende certi comportamenti un obbligo anche in una democrazia.
Ecco perché ci sono espressioni che andrebbero valorizzare come il vecchio "senso del dovere", che in giuste dosi serve nella vita. Un avvocato del diavolo potrebbe - a giusto titolo - segnalare appunto come lo stesso "dovere" va dosato con saggezza. Altrimenti - noi esseri umani - potremmo cadere nel "doverismo", che è una vera e propria patologia che può imprigionare.
Certo Massimo d'Azeglio prendeva la questione sul serio e non in punta di... Diritto: «A fare il proprio dovere, il più delle volte fastidioso, volgare, ignorato, ci vuol forza di volontà e persuasione che il dovere si deve adempiere non perché diverte o frutta, ma perché è dovere; e questa forza di volontà, questa persuasione, è quella preziosa dote che con un solo vocabolo si chiama carattere».
Più leggero, ma indica bene il perimetro senza elevarsi a livelli di discussione da capogiro la celebre coppia di scrittori Fruttero e Lucentini: «Tranne forse gli animali delle favole di La Fontaine, nessuno è mai stato bravo come gl'italiani nell'arte d'inventare nobili pretesti per eludere i propri doveri e fare i propri comodi».
Sorridere fa capire le cose molto più di un eccesso di... sermoni.
Allora vien voglia di chiudere, passando dal sostantivo al verbo.
E rispunta "Treccani" e si apre un mondo: "Dovere significa avere l'obbligo di fare qualcosa (dobbiamo essere onesti; il cittadino deve pagare le tasse; se hai promesso, devi mantenere). In molti casi, il verbo dà alla frase un tono di comando, oppure di volontà, o desiderio (così dev'essere; devo in tutti i modi riuscire a parlargli); in altre situazioni invece il significato è attenuato, e il verbo esprime un consiglio o una preghiera (dovete ascoltarmi; devi essere sincero con me); spesso è usato al modo condizionale, e significa essere necessario o essere opportuno (dovresti cambiare l'olio al motore; dovresti farlo): si ricorre al condizionale per esprimere questa necessità o opportunità in una forma cortese e attenuata".
E ancora: "Il verbo dovere può anche esprimere la necessità di fare qualcosa (devo mangiare; devi fare più moto), un bisogno (devo parlarti) o una costrizione dovuta a una qualche circostanza (è dovuto partire all'improvviso)".
I dizionari hanno il dono della sintesi, senza troppi ghirigori.

Onirico!

I sogni son desideri di felicità / Nel sonno non hai pensieri / Li esprimi con sincerità / Se hai fede chissà che un giorno / La sorte non ti arriderà / Tu sogna e spera fermamente / Dimentica il presente / E il sogno realtà diverrà!
Cenerentola (1950)
Nessuna poesia! Ma una canzoncina che arriva dal passato remoto per parlare di una parola legata al sogno.
Personalmente sogno di più quando sono riposato, altrimenti quando sono stressato mi arrivano quei sogni mattutini che sono come uno squarcio. Avviene quando mi sveglio prima del solito (oggi per me la fine della notte si situa poco dopo le 5) e mi impongo di non alzarmi e arrivano sogni - anche apparentemente lunghi e complicati - che poi nella realtà sono durati un pugno di minuti.
La parola di oggi è un aggettivo, “onirico”, che pare penetrato nella lingua italiana a fine Ottocento, neologismo derivato dal greco
óneiros ‘sogno’, forma ampliata di ónar, di cui fa parte il suggestivo oneiromántis ‘interprete dei sogni’.
La nostra rodata Treccani annota: “riguarda il sogno o i sogni, o che avviene, che si manifesta nel sogno: attività onirica; la fase onirica del sonno; interpretazioni oniriche; visioni, immagini, scene e allucinazioni oniriche”
Descrive dice ancora il dizionario: “irreale, rarefatto, fantastico: un’atmosfera onirica, poesia onirica; il sapore onirico degli ultimi film di Fellini”.
Poi ci avviciniamo alla scienza: “In psicanalisi, lavoro onirico (traduzione del tedesco Traumarbeit), l’insieme delle operazioni psichiche per mezzo delle quali colui che sogna traduce il contenuto latente del sogno (e cioè i desiderî proibiti che questo tende a esaudire) in un contenuto manifesto, che possa essere accettato e, quindi, ricordato nello stato di veglia.
Chi meglio di Sigmund Freud, che lessi anche sui sogni perché i suoi libri - non ho mai chiesto a mio papà il perché - erano nella biblioteca di casa.
Così annotava il padre della psicoanalisi: “Anche nei sogni meglio interpretati è spesso necessario lasciare un punto all’oscuro, perché nel corso dell’interpretazione si nota che in quel punto ha inizio un groviglio di pensieri onirici che non si lascia sbrogliare, ma che non ha nemmeno fornito altri contributi al contenuto del sogno. Questo è allora l’ombelico del sogno, il punto in cui esso affonda nell’ignoto”
L’altro padre della materia, Carl Gustav Jung così sintetizzava: “Il sogno è una piccola porta nascosta nel santuario più profondo e intimo dell'animo.
Non so dire, ma “onirico” mi piace molto perché sembra in questa sua antica origine - che illumina la poesia del greco che tanto mi preoccupava al Ginnasio con il compitino di verbi - suonare come una parola meravigliosamente misteriosa e in effetti il sogno mantiene è un sacco di segreti.
Per sdrammatizzare come non ricordare l’ironia di Gesualdo Bufalino: “Come mi piacerebbe una "cura del sogno", se solo potessi sceglierli, i sogni, in anticipo, come si sceglie nella pagina degli spettacoli il film per la serata”.

Riabilitare un poco la Pigrizia

Ah! La pigrìzia! Come tant’è parole viene anche questa dal latino - il cui studio sta ahimè declinando - pigritia, derivazione di piger «pigro»
La Treccani è implacabile: “Il fatto d’esser pigro; la qualità, e quindi anche l’atteggiamento, il comportamento di chi è naturalmente pigro nell’agire, nell’operare, o anche soltanto nel muoversi: è noto per la sua pigrizia; a causa della sua pigrizia non riuscirà a fare nulla di buono; adocchia Colui che mostra sé più negligente Che se pigrizia fosse sua serocchia [cioè sua sorella] (Dante, con riferimento a Belacqua, un liutaio fiorentino, che sconta la sua pena tra gli spiriti negligenti nel 1° balzo del purgatorio)”.
E poi ancora: “pigrizia mentale, pigrizia intellettuale, atteggiamento di torpore della mente che si mostra lenta o trascurata nella ricerca della verità e nell’arricchimento delle proprie conoscenze. Anche come comportamento di gruppi sociali, istituzioni, o intere popolazioni (per i quali si parla più spesso di indolenza, lentezza, e simili): la pigrizia della nostra burocrazia; una nazione che crede alla collaborazione delle classi, che rinuncia per pigrizia alla lotta politica, è una nazione che vale poco (Gobetti)”.
Infine: “Per estensione, e impropriamente., di animale che si mostri lento nel muoversi, nello spostarsi, nel camminare: la pigriza della lumaca, della tartaruga”.
Dico subito che non so per quale gioco familiare, specie con i miei figli, questo “j’accuse” verso la pigrizia è stato contestato. “Fare pigrizia” è diventato un positivo momento di relax, vissuto assieme in qualche svago familiare basico
E, invece, se leggi i sinonimi - alcuni per me dubbi - sprofondi:
“abulia, apatia, fannullaggine, indolenza, inerzia, infingardaggine, neghittosità, pigrezza”. Il culmine sono accidia, e ignavia”.
È proprio l’accidia, cari miei, è un vizio capitale, che descrive, facendo impressione, un torpore malinconico, l’inerzia nel vivere e - questo il punto - nel compiere opere di bene.
Se cerchiamo una colpevolizzante definizione laica può spuntare Jules Renard che così inchioda: “Pigrizia: l’abitudine di riposarsi ancor prima di essere stanchi”.
Fortuna che ci soccorre il mio amato etologo Konrad Lorenz: “Gli animali stessi sono così meravigliosamente pigri: all’animale è assolutamente estranea la folle smania di lavoro dell’uomo moderno, cui manca perfino il tempo di farsi una vera cultura. Anche le api e le formiche, queste personificazioni della solerzia, trascorrono la maggior parte della giornata immerse in un dolce far niente, solo che quelle ipocrite non si fanno vedere quando se ne stanno tranquillamente a casa, ma solo quando sono al lavoro”.
Chi non ha vergogna della sua pigrizia, che cela l’animo felino da predatore, sono i miei amatissimi gatti, passione che non posso più coltivare con una moglie allergica al pelo di questo animale.

Parole, parole, parole…

Da domani, tranne fatti rilevanti di cui mi sentissi obbligato ad occuparmi, apro - come già avvenne in passato - una pausa nel cuore dell’estate.
Trovo utile, esattamente come avviene con le vacanze quando ci si ristora dalla quotidianità, aprire una spazio libero ai propri pensieri. Abbandonare per un attimo il lavoro, in un periodo che resta per nulla banale per molte ragioni e lo stesso impegnativo, consente digressioni che confortano.
Mi occuperò di parole dimenticate o sottostimate. Ha scritto la poetessa Emily Dickinson: “Non conosco nulla al mondo che abbia tanto potere quanto la parola. A volte ne scrivo una, e la guardo, fino a quando non comincia a splendere”. Per questo credo che ognuno di noi abbia delle sue parole preferite o persino a rischio ripetizione. Capita a qualunque età, anche dopo lo straordinario periodo dell’apprendimento che si scopre soprattutto con i propri figli, di trovarne di nuove e di scoprirne l’utilità.
Sulla parola parola ha scritto Stefano Bartezzaghi: “Parola, si sa, è una parola e fra le parole è una delle meno univoche. La parola è il vocabolo ("ossesso è una parola palindromica") ed è l'impegno del locutore nel proprio discorso ("ti do la mia parola"); è la facoltà ("il dono della parola") ed è il diritto di parlare ("do la parola a ..."); è un'affermazione, una presa di posizione nel discorso ("avere l'ultima parola") ed è un indirizzo ("la parola del maestro"); è il vacuo succedaneo dei fatti ("solo a parole") ed è un modo di parlare ("avere la parola facile"): nella sua variabilità semantica, la parola parola allude alle virtù oscillatorie del linguaggio”.
E bisogna ancora ricordare con Gabriel Garcia Marquez: “Le parole non vengono create dagli accademici nelle accademie bensì dalla gente per strada. Gli autori dei dizionari le catturano quasi sempre troppo tardi e le imbalsamano in ordine alfabetico, in molti casi quando non significano più ciò che intendevano gli autori”.
A me piacciono le parole. Mi piacciono quando scrivo e mi trovo a doverle pesare nella speranza di essere efficace. E mi piace seguirne il flusso quando mi capita di parlare in pubblico non solo nella speranza di comunicare bene quanto penso, ma per il gusto di poterle inanellare nel rapporto che si crea con le persone che ti ascoltano.
Gianni Rodari, con una sua filastrocca diventata famosa specialmente nella versione musicata e cantata da Sergio Endrigo, ha dato una definizione che va davvero al di là di ogni eccesso intellettualistico:
“Abbiamo parole per vendere,

parole per comprare,

parole per fare parole.

Andiamo a cercare insieme

le parole per pensare.
Abbiamo parole per fingere,
parole per ferire,

parole per fare il solletico.

Andiamo a cercare insieme

le parole per amare.

Abbiamo parole per piangere,
parole per tacere,

parole per fare rumore.

Andiamo a cercare insieme

le parole per parlare”.
La scelta delle parole che qui verranno finisce per essere abbastanza casuale, più o meno sintetica e certamente soggettiva, senza essere pretenzioso.
Perché, per fortuna, con le parole si può anche giocare.

Quando è bene pentirsi

Si può raccontare una stupidaggine fatta? Certo che si può, anzi esiste qualcosa di benefico nel rievocare qualche cosa di cui ci si è pentiti.
L’episodio risale a oltre vent’anni fa. Lasciavo la Camera dopo tanti anni di lavoro parlamentare e i miei colleghi della Rai Valle d’Aosta decisero di scendere a Roma per realizzare un ampio reportage su di un’attività che finiva. Per la Struttura di Programmazione c’era la guida esperta di Maria Luisa Di Loreto.
Un primo appuntamento per realizzare immagini in loco fu fissato a due passi da Piazza del Pantheon e più esattamente davanti ad un celebre ristorante, Fortunato al Pantheon.
Arrivato di fronte all’entrata del ristorante, trovai Renato Brunetta, mio collega deputato con incarichi anche di Governo e che poi ritrovai a Bruxelles e in molte altre circostanze. Uomo di carattere e di fulminea intelligenza.
Chiacchierammo amabilmente del più e del meno, quando mi chiamò al telefono la troupe e mi spostai di qualche metro. Vidi arrivare l’operatore e gli andai incontro e ci fermammo di nuovo di fronte a Fortunato. Renato non era più lì e a me scappò una battuta stupidissima.
Apostrofai il collega Rai: “ “Hai un giardino a casa tua?”. Lui assentì ed io aggiunsi da vero imbecille: “Potevi portare a casa come da nano da giardino Brunetta, che era qui poco fa!”.
Solo in quel momento - ma non so se mi sentì - vidi spuntare da un cespuglio a pochi metri la faccia di Renato. Sprofondai.
Non parlai mai con lui della storia, ma mi è tornata in mente l’episodio, dopo averlo visto in tv con Lucia Annunziata. Così ha detto Brunetta: “È una vita che vengo violentato per la mia altezza, ho sofferto e continuo a soffrire. Non tanto per Brunetta, ma per i bambini, che non hanno avuto la fortuna di essere alti, belli e che stanno soffrendo e che possono avere in me un esempio, e che dicono "Guardate Brunetta, tappo come è, nano come è, fa il ministro". Ecco, sdogano questo termine su di me”.
Brunetta si era poi rivolto a Marta Fascina, compagna di Berlusconi, che nei giorni scorsi ha pubblicato una storia su Instagram con la scritta «Roma non premiai traditori», con in sottofondo una celebre canzone di De Andrè che narra la vicenda di un giudice con un noto ritornello “È una carogna di sicuro Perché ha il cuore troppo
Troppo vicino al buco del culo”«Marta Grazie, vai avanti, così perché consentirai di sdoganare anche queste violenze», ha detto il ministro. 
Parlai della mia frase cretina con Paolo Costa al Parlamento europeo. Già Sindaco di Venezia, Paolo era amico personale di Renato e ogni tanto capitava che quest’ultimo gli tenesse il figlio. Per cui mi raccontò un aneddoto. Una sera il bambino, al ritorno dei genitori, chiese loro: “Ma Renato è un bambino che fa l’adulto o un adulto che fa il bambino?”. Il candore dei bambini è qualche cosa di straordinario.
Ben diverso dal body-shaming, espressione inglese composta dal body (‘corpo’) e dal sostantivato shaming (‘il far vergognare qualcuno.’). Si tratta letteralmente di giudicare le forme del corpo delle persone, in particolare attraverso il web e i social network. Una tendenza a dir poco imbarazzante e inaccettabile per chiunque si permetta di praticarlo anche involontariamente, come nel mio stupido esempio.
Anche a me è capitato di essere stato rappresentato in vignette, specie quando ero Presidente della Regione da un’eroina dell’estrema sinistra, come un brutto grassone deforme, ma capita ancora che ci sia - non solo a me - che quell’area politica segua il filone con disegni lol che non fanno ridere.
Comportamento che non è una battuta inopportuna come fu la mia, ma una scelta squallida di demonizzazione di un avversario in una logica davvero - con tutti i limiti della definizione - “politicamente scorretta”.

Perché Einstein fa la pubblicità?

Parecchie volte, in passato ma anche di recente, mi è capitato di vedere Albert Einstein come personaggio inserito in pubblicità varie e ne sono sempre uscito perplesso e talvolta pure schifato.
Einstein è stato non solo un genio della Fisica, ma anche un uomo arguto e con grande carisma, che ha scritto di parecchie cose persino filosofiche e certamente umanistiche. Resta ancora oggi, pur essendo mancato da tanti anni, una personalità ben nota sia per le sue competenze che per quel briciola di bizzarria che lo ha contraddistinto.
Ma chi gestisce questa pubblicità o, come leggo nel titolo di un articolo di Simon Parkin sul The Guardian: “A chi appartiene Einstein?”.
Così scrive Parkin tradotto da Internazionale: “Albert Einstein morì nel 1955. Nell’articolo 13 del suo testamento fece scrivere che i suoi “manoscritti, i diritti d’autore, i diritti di pubblicazione, i ricavi derivanti da questi diritti... e ogni altra proprietà letteraria”, alla morte della sua segretaria Helen Dukas e della figlia Margot Einstein sarebbero passati all’Università ebraica di Gerusalemme, che lui stesso aveva contribuito a fondare nel 1918. Nel testamento Einstein non menzionava l’uso del suo nome o della sua immagine su libri, prodotti o pubblicità. Oggi sono noti come diritti di pubblicità, ma all’epoca questo concetto legale non esisteva. Quando l’U-niversità ebraica assunse il controllo del patrimonio di Einstein nel 1982, tuttavia, i diritti pubblicitari erano diventati un feroce campo di battaglia legale, del valore di milioni di dollari all’anno.
A metà degli anni ottanta l’università cominciò a decidere chi poteva usare il nome e l’immagine di Einstein e a quale prezzo”.
Capito? Viaggiano oggi attorno al mito di Einstein fior di soldi e, dal contesto dell’articolo, interessi vari spesso finiti in Tribunale
Ancora l’articolo: “Mentre gli avvocati discutono i punti oscuri del diritto, l’Università ebraica continua a trarre profitto dal nome, dall’immagine di Einstein e perfino dalla sua silhouette. Nel 2021 il governo britannico ha pagato una somma non precisata per usare Einstein come testimonial in una campagna televisiva e online per pubblicizzare i contatori di energia intelligenti. L’università è attualmente coinvolta in una causa intentata contro cento presunti trasgressori nello stato dell’Illinois, dove una legge protegge tutto, dall’immagine di una celebrità ai suoi “gesti e manierismi” per cent’anni”.
Così è, dunque. Grandi interessi e anche molti scivoloni in nome dell’illustra fisico.
Annota verso la fine Parkin: “A sessant’anni dalla sua morte, Einstein non smette di far guadagnare. Il fatto che sia ancora così richiesto dipende non solo dalla sua genialità fuori dal comune e dal suo aspetto indimenticabile, ma anche dai valori che incarnava. È sempre stato facile per diversi gruppi di persone considerare Einstein – un uomo ipocondriaco basso e dislessico, proveniente da una minoranza perseguitata – uno di loro. Le sue posizioni apparentemente contraddittorie – si opponeva alla creazione di uno stato ebraico ma condannava la vittimizzazione dei palestinesi, mentre raccoglieva fondi per la causa sionista; disdegnava l’idea del popolo eletto, ma credeva in Dio – hanno permesso anche a gruppi opposti di adottarlo come simbolo.
Cosa avrebbe detto Einstein vedendosi sugli schermi televisivi, sui cartelloni pubblicitari, sui manifesti e sulle magliette? Sarebbe stato felice di come l’Università ebraica ha gestito la sua eredità? Quando era in vita si sentiva spesso guardato ma non ascoltato. “È strano essere così universalmente conosciuto e tuttavia così solo”, disse una volta”.
Oggi - come da celebre foto - farebbe la linguaccia a chi specula su di lui!

Carta o digitale?

Capisco che quando si parla del futuro della carta stampata si entra in un terreno controverso. Chi è nato e cresciuto con la carta giustamente si pone sulla difensiva, anche se spesso si tratta di una difesa d’ufficio.
Opposto estremismo è chi si sente ormai digitale per sempre: libri su eBook, giornali sul tablet, scrittura a mano scomparsa.
La Scuola sul punto si muove con cautela in questa transizione digitale e non è facile avere ponti ragionevoli fra passato e futuro, ma anche in questo caso bisogna essere realisti e aprirsi al nuovo. Ma non è facile avere libri elettronici, specie in una Regione che offre gratuitamente i libri nelle scuole, anche con passaggi da studente a studente dei volumi. Gli editori non sono ancora pronti a proporre soluzioni ragionevoli e economici sui diritti per adoperare più volte le licenze sugli EBook.
A casa mia sin da bambino - faccio esempi che mi riguardano - i libri erano una realtà ben presente con una bella libreria con libri antichi di famiglia e quanto, assai vario, prima accumulò mio papà e poi noi figli.
Nelle mie case successive, seguendo il corso della mia vita, la modellistica è stata la stessa. Avere libri da leggere e consultare al tempo della scuola era certamente un grosso vantaggio per chi, come me, ne ha avuto la possibilità. Oggi leggo spesso in formato elettronico, ma se devo studiare uso i vecchi libri.
Un’evidente utilità mi è venuta anche dai giornali: La Stampa, oggi in crisi nera di vendita e con una direzione ormai romanocentrica, è sempre stata in casa, talvolta con la defunta Gazzetta del Popolo che ebbe la pagina locale prima dell’altro quotidiano torinese. Poi c’erano le riviste: oltre a L’Espresso che papà persino per un certo periodo raccoglieva, la mamma leggeva un altro settimanale, Annabella e spuntavano ogni tanto Gente e Oggi. Per me i primi giornalini furono l’abbonamento a Topolino e anche al Giornalino di stampo cattolico, ma non mancavano Tex, il Monello, l’Intrepido e da ragazzino Linus.
Oggi - fatemi fare una digressione - è diventato un settimanale vitalissimo e che cresce nelle vendite, perché anche nei giornali vale il « chercher l’homme » (o la femme) e il Direttore Carlo Verdelli, vecchia volpe dei giornali, ha fatto un vero miracolo. In altri casi, esattamente opposto, sono declinare riviste che leggevo, come ad esempio Panorama.
Difficile dire cosa capiterà e lo dico come giornalista radiotelevisivo e dunque fra coloro che sono nati e cresciuti in una logica post Gutemberg, per così dire. In questo solco ho occupato spazi come quello in cui state leggendo quanto ho scritto e lo stesso vale per Twitter che trovare in questo medesimo spazio.
Per cui anch’io mi sono molto digitalizzato, dopo aver scritto per anni rubriche cartacea su giornali come La Vallée o come Le Peuple Valdôtain.
Strade nuove senza abbandonare il passato in un delicato equilibrio, sapendo che nessuna generazione come quelle simili alla mia hanno vissuto rivoluzioni tecnologiche e nuovi usi e abitudini da inseguire nel cammino della propria vita.

Leggerezza e pesantezza

Italo Calvino«Leggerezza, leggerezza!». L'altro giorno sono stato rimproverato così in un contesto familiare. E trovo che sia giusto un ammonimento di questo genere. Il periodo in generale è difficile e si riverbera in qualche modo sul nostro stato d'animo, per non dire - perché spaventa - sul nostro equilibrio mentale.
Credo che capiti a tutti - complice anche la canicola - di svegliarsi la notte, quando i pensieri diventano fantasmi inquietanti che si ingigantiscono, come avviene con i tre fantasmi che appaiono nello "Spirito del Natale" di Charles Dickens a Jacob Scrooge, ricordandogli i suoi errori.
C'è una bella frase: «Prendete la vita con leggerezza, ché leggerezza non è superficialità, ma planare sulle cose dall'alto, non avere macigni sul cuore». Una frase che è attribuita a Italo Calvino, ma in realtà è stata scritta nel 2007 da Mattea Rolfo, scrittrice e blogger.
Tuttavia – attenzione! – della leggerezza in realtà Calvino si è occupato sino in fondo.
Lo ha fatto nel libro "Lezioni americane", pubblicato per la prima volta nel 1988. Calvino, in una fase matura della sua carriera, ci invita a vivere la vita con leggerezza d'animo e la frase, pur non sua, ne riassume il pensiero. Era in realtà il 1985 quando l'Università di Harvard, in Massachusetts, si preparava a ospitare lo scrittore italiano Italo Calvino all'interno del progetto "Poetry Lectures", un ciclo di lezioni intitolate ad un noto storico dell'arte e studioso di Dante di nome Charles Eliot Norton.
Erano sei le proposte per il prossimo millennio - quello in cui ora ci siamo - e vennero preparate da Calvino con grande attenzione. E oltre a leggerezza figuravano: rapidità, esattezza, visibilità, molteplicità. Proposte che non vennero mai enunciate dal vivo ma finirono nel libro postumo, perché l'autore si spense il 19 settembre dello stesso anno, prima degli incontri previsti nel corso dell'autunno successivo.
Al centro dei pensieri c'era la letteratura come sfida per elevarsi rispetto alla pesantezza della realtà. La leggerezza andrebbe trovata, osservava Calvino, «nella narrazione d'un ragionamento o d'un processo psicologico in cui agiscono elementi sottili e impercettibili, o qualunque descrizione che comporti un alto grado d'astrazione», così come «nelle invenzioni letterarie che s'impongono alla memoria per la loro suggestione verbale più che per le parole» che sono state utilizzate. E aggiungeva: «Nei momenti in cui il regno dell'umano mi sembra condannato alla pesantezza, penso che dovrei volare come Perseo in un altro spazio. Non sto parlando di fughe nel sogno o nell'irrazionale. Voglio dire che devo cambiare il mio approccio, devo guardare il mondo con un'altra ottica, un'altra logica, altri metodi di conoscenza e di verifica. Le immagini di leggerezza che io cerco non devono lasciarsi dissolvere come sogni dalla realtà del presente e del futuro».
E poi ancora: «Se volessi scegliere un simbolo augurale per l'affacciarsi al nuovo millennio, sceglierei questo: l'agile salto improvviso del poeta-filosofo che si solleva sulla pesantezza del mondo, dimostrando che la sua gravità contiene il segreto della leggerezza, mentre quella che molti credono essere la vitalità dei tempi, rumorosa, aggressiva, scalpitante e rombante, appartiene al regno della morte, come un cimitero d'automobili arrugginite».
Infine una giusta sottolineatura che evita l'effimero: «Esiste una leggerezza della pensosità, così come tutti sappiamo che esiste una leggerezza della frivolezza: anzi, la leggerezza pensosa può far apparire la frivolezza come pesante e opaca».
Leonardo Sciascia in analoghi ragionamenti sposta l'orizzonte: «Si è così profondi, ormai, che non si vede più niente. A forza di andare in profondità, si è sprofondati. Soltanto l'intelligenza, l'intelligenza che è anche "leggerezza", che sa essere "leggera", può sperare di risalire alla superficialità, alla banalità».
Mentre Milan Kundera lo complica: «Ma davvero la pesantezza è terribile e la leggerezza meravigliosa? Il fardello più pesante ci opprime, ci piega, ci schiaccia al suolo. Ma nella poesia d'amore di tutti i tempi la donna desidera essere gravata dal fardello del corpo dell'uomo. Il fardello più pesante è quindi allo stesso tempo l'immagine del più intenso compimento vitale. Quanto più il fardello è pesante, tanto più la nostra vita è vicina alla terra, tanto più è reale e autentica. Al contrario, l'assenza assoluta di un fardello fa sì che l'uomo diventi più leggero dell'aria, prenda il volo verso l'alto, si allontani dalla terra, dall'essere terreno, diventi solo a metà reale e i suoi movimenti siano tanto liberi quanto privi di significato. Che cosa dobbiamo scegliere allora? La pesantezza o la leggerezza?».
Forse si può coltivare un giusto mezzo.

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