Social e cani

“Giro girotondo,/casca il mondo,/casca la terra/tutti giù per terra!” E’ questa la filastrocca che tutti noi da bambini abbiamo cantato, giocando con i nostri amichetti.
Oggi, da adulti, la potremmo leggere come rappresentazione di certi cambiamenti che turbano. Un po’ perché non si vedono più questi giochi da cortile. Ci sono meno bambini in giro, noi genitori siamo più apprensivi e infine nelle mani dei piccoli c’è l’arma di distrazione di massa più letale, il telefonino. Per cui se metti assieme dei bambini il rischio è quello di vederseli ingobbiti mentre giocano soli sul loro apparato, dimenticando i coetanei a due passi e la socialità che noi nelle compagnie con gli amici abbiamo vissuto a tutte le età. Difficile far loro la morale se genitori e parenti fanno ormai la stessa cosa.
Già, lo vediamo in tutte le occasioni. Raccontavo l’altro giorno dei primi telefonini con l’uso degli sms. Sono passati una trentina d’anni, anche se sembra ieri. Ebbene, quando durante un incontro o un convegno si riceveva un messaggio e si doveva rispondere ci si sentiva come dei ladri a e ci si metteva a farlo di nascosto, consoci di violare regole di bon ton. Oggi, in qualunque situazione pubblica e persino vis à vis, non c’è pudore nel cavare il telefonino e chattare amabilmente. In certe situazioni ufficiali c’è chi in prima fila passa il tempo a navigare su Internet come se nulla fosse. La socialità e l’immersione digitali fanno di noi delle persone diverse dal passato.
Ecco perché mi ha fatto sorridere un articoletto su Le Monde, che chiarisce un nuovo passo, che chiamerei parallelo, e che dimostra la stranezza dell’evoluzione dei costumi.
A fare uscire molte persone dal loro guscio digitale, ci pensano gli altri grandi emergenti della nostra epoca: i cani. Un tempo considerati animali di compagnia o da lavoro ormai si sono trasfigurati in qualcosa di nuovo, tipo figli suppletivi, persino più attrattivi dei pochi bambini in giro, esempio purtroppo plastico della crisi demografica e di un rapporto uomo-animale che spesso lascia perplessi.
Guillemette Faure su Le Monde apre appunto un capitolo interessante: “S’il semble de plus en plus incongru d’adresser la parole à des gens que l’on ne connaît pas, une catégorie de la population échappe à cette règle : la grande confrérie des promeneurs de chien. A l’instar des motards qui s’adressent un petit signe en se croisant, deux maîtres s’échangent habituellement un regard, voire plus si affinités, qui signale leur appartenance au même monde. A raison de trois balades par jour, souvent à heures fixes, on a vite fait de se faire des amis. Et nombreux sont ceux qui, bien qu’habitant dans le même quartier depuis des années, ont découvert qu’ils avaient des voisins le jour où ils ont eu un chien”.
Il cane, insomma, come residua occasione per conoscere altri con il cane, senza dimenticare i capannelli di persone che si creano per strada attorno ad un cane - più la razza è strana è meglio - quanto ormai, lo ripeto, non capita più come una volta neppure neppure al più splendente dei bebè in un passeggino.
Prosegue l’articolo: “On pourrait voir dans la promenade des chiens l’un des derniers outils de brassage social. « Le chien de bobo n’a pas les codes bobos. Il renifle le cul d’un chien de prolo comme celui des autres chiens, et il côtoie le chien de la mémère en anorak », observe Thomas Legrand, journaliste et auteur, avec Laure Watrin, de La République bobo (Stock, 2014).
Già perché non abbiamo imbarazzo alcuno che i cani, al posto di darsi la zampa, annusino il sedere del loro simile per fare conoscenza…
Ma poi - miracolo contemporaneo - anche i loro accompagnatori socializzano e si parlano.
Scrive la Faure: “Les promeneurs parlent d’eux, aussi : leur divorce passé ou l’opération à venir. « Si vous demandez à une personne de raconter la vie de son chien, elle va ouvrir des tas de pans de son intimité qu’elle n’aurait pas montrés sinon », observe Christophe Blanchard, anthropologue et maître-chien. En travaillant sur la place sociale de cet animal de compagnie, il s’est notamment spécialisé dans l’étude des SDF escortés de chiens : « Alors que d’autres grands exclus vont être mangés par le macadam, eux créent une sociabilité plus grande ; l’animal permet d’avoir un point de connexion, de faire des rencontres. » C’est pour cette raison qu’il travaille avec l’armée à un grand projet auprès des victimes de chocs post-traumatiques, en les amenant à adopter des chiens. « Certaines restent enfermées chez elles, donc ça les sort de l’isolement, ça les aide à se reconnecter… » Un constat qui vaut, en réalité, pour tout un chacun”.
Ditemi che non ci siete mai accorti di chi, magari timido se non asociale, gira con cagnoni eccentrici atti a fare qualche conoscenza, altrimenti impossibile? Lo dice l’articolo l, mettendo in bocca ad uno degli intervistati la frase chiave: ”Le vrai réseau social, c’est pas Facebook, c’est le chien!”.
Ce qui n’empêche pas, comme sur les réseaux sociaux, de tenter de se mettre en scène comme la personne qu’on voudrait être. Tout comme les parents de jeunes enfants peuvent parler plus fort à l’extérieur, pour montrer quelle sorte de darons ils sont, les propriétaires de chien peuvent hausser la voix en présence d’autres maîtres pour afficher leur sens des responsabilités. Prenez la tacite compétition entre eux, au sujet du temps que met leur chien à venir entre leurs jambes quand ils crient « Gus, au pied ! » : elle n’est pas sans évoquer les vantardises des parents au sujet des performances scolaires de leur rejeton…
Avant que les chiens se reniflent, ce sont souvent les maîtres qui s’observent. Le jaugeage se fait à distance et en miroir. « Si tu vois que la personne remet la laisse à 200 mètres, tu fais pareil ; s’il tient au pied, tu fais pareil… », explique Carine Vandystadt. Contrairement aux promeneurs d’enfants, la première question vise à déterminer s’il s’agit d’un mâle ou d’une femelle. Ceux qui répondent « femelle » marquent des points, certains mâles pouvant se montrer agressifs entre eux. C’est le cas de Hush, le petit roquet de Christie Vanbremeersch, qui fait ses sorties à Malakoff (Hauts-de-Seine). Des liens s’établissent aussi entre propriétaires de chiens ennemis, a-t-elle compris avec le temps. On change de trottoir quand on se voit de loin, on se fait des mimiques pour montrer qu’on se cache derrière une voiture. Quand il n’est pas en laisse, son chien n’est pas agressif, assure-t-elle. C’est ce que n’a pas compris cette maîtresse qui l’a traitée de « connasse ». « Elle m’a confondue avec mon chien ! »
L’an dernier, Christie Vanbremeersch s’était fait une amie promeneuse de chien, qu’elle retrouvait le matin, à 7 h 45. Elles discutaient en amenant les cabots au parc voisin, se racontaient leur vie. On ne se sent pas jugé par quelqu’un qui vous a vu ramasser des déjections. Et puis la voisine est passée en télétravail, ses heures de sortie ont changé. Le lien s’est cassé. Elles se sont revues par hasard, au concert de Starmania, et à un dîner dans le quartier. Mais ce n’était plus pareil. « Avec un ami de promenade de chien, il n’y a pas d’enjeu, rien à prouver. »

Il 1 Maggio senza retorica

Certe festività si svuotano da sole. Restano sul calendario, ma finiscono per essere per la gran parte delle persone un gradito giorno di vacanza in più. E questo avviene in un periodo in cui - se ci riferiamo al 1 maggio - il lavoro sta cambiando in profondità e lo si vede nella vita corrente e leggendo chi si occupa del tema con maggior competenza della mia.
Prendiamo la Costituzione e l’incipit dell’articolo 1: “L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”. Formula di compromesso che venne scritta di proprio pugno da Amintore Fanfani all’epoca membro della Costituente, come via di mezzo fra una proposta di Aldo Moro e un’altra di Palmiro Togliatti. Un esempio mirabile dello sforzo democristiano e comunista che avvenne all’epoca di trovare una sintesi fra diverse correnti di idee trasfuse nella scrittura della prima vera Costituzione italiana, dopo lo Statuto Albertino in vita dal 1848.
Nello stesso solco, a meglio esplicitare che cosa si intendesse per “lavoro”, arrivò poi nel 1970 lo Statuto dei Lavoratori, anch’esso esempio importante del ruolo della politica nel cercare situazioni di equilibrio fra diversi modi di vedere le cose. Scontro di idee che si trasfonde nella capacità del compromesso come formula matura di dialogo. Scusate l’ovvietà in un’epoca nella quale a questo esercizio si preferisce lo scontro continuo con l’occhio ormai maniacale ai sondaggi elettorali e non alla soluzione dei problemi concreti.
Il lavoro cambia nel percepito della nostra società e probabilmente oggi, in una Costituzione rammodernata, non ci sarebbe più evocazione del suo ruolo come incipit. Il 1 Maggio riflette questa realtà. I Sindacati, che da tempo sono ormai in prevalenza prestatori di servizi con un articolo, il 39. della stessa Costituzione rimasto sulla carta, di cui ricordo la dimenticata e inattuata prima parte: “L'organizzazione sindacale è libera. Ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la loro registrazione presso uffici locali o centrali, secondo le norme di legge. E' condizione per la registrazione che gli statuti dei sindacati sanciscano un ordinamento interno a base democratica”.
Così in questo 2023 si fronteggiano due visioni egualmente vetuste. Da una parte il Concertone a Roma nella logica del “panem et circenses”, che poco ha davvero a che fare con la celebrazione di una Festa, anche se certo “non sono solo canzonette”. E dall’altra, nel solco della Destra sociale meloniana, la decisione di avere su alcuni aspetti della legislazione in tema di lavoro un Consiglio dei Ministri in questa giornata festiva con anticipo, umiliante per le forze sociali, di una riunione che è stata semplice comunicazione.
Trattasi in entrambi i casi di un esercizio retorico, nel senso che ormai ha acquisto questa parola, vale a dire - da dizionario - nei suoi contenuti e naturalmente nella sua forma a “linguaggio ampolloso, ricco di orpelli, ma povero di contenuti”. E ancora: “esaltazione solo superficiale di qualcosa, anche attraverso la retorica dei buoni sentimenti”.
Credo che sia facilmente dimostrabile che ormai sia così e che questo derivi da profondi cambiamenti in corso, di cui sarebbe bene prendere atto. Senza questa consapevolezza il 1 Maggio sarà sempre più una giornata di svago, di cui si è finito per perdere il senso. Un processo rispetto al quale non serve a nulla colpevolizzare chissà e bisogna democraticamente prendere atto di come le cose cambino, al di là della volontà dei singoli e delle organizzazioni sindacali, che meglio di chiunque altro sanno bene come il loro ruolo - tolta la retorica tribunizia - sia ormai diverso persino dai loro roboanti Statuti. E la stessa cosa vale naturalmente, ma è altra e pur parallela questione, per i partiti politici.

I 150 anni della Partita a scacchi

Chi è cresciuto a Verrès, nella temperie carnevalesca che anima il paese con la ricostruzione storica che riecheggia vicende quattrocentesche, sa bene che cosa sia la “Partita a scacchi”, che viene messa in scena il lunedì di Carnevale nella fortezza che domina il paese.
Così sintetizza la Treccani per chi non la conoscesse: “Opera teatrale del narratore e drammaturgo Giuseppe Giacosa (1847-1906). In versi martelliani e in un atto, composta nel 1871 e rappresentata a Napoli il 30 aprile 1873, è tratta da un episodio "grivois" del cantare cavalleresco Huon de Bordeaux (sec. XIII), scambiato dal Giocosa per una romanza provenzale”.
Avete notato la data? Sono quest’oggi i 150 anni dalla prima della commedia!
Ecco la descrizione della pièce: “La partita a scacchi è quella giocata in un castello del XIV secolo tra il bel paggio Fernando e Iolanda, figlia del nobile Renato e abilissima nel gioco degli scacchi, ma ignara della scommessa stretta tra il proprio padre e Fernando: se vincerà questi, lei gli andrà in sposa, mentre se vincerà la giovane, lui dovrà morire. Durante la partita Iolanda s’innamora del paggio e lo lascia vincere, ottenendolo così per marito, per la gioia del proprio padre pentitosi nel frattempo dell’eccessiva posta in gioco nel caso fosse stato Fernando a perdere”.
Di recente, curata dalla compagnia teatrale Palinodie, ho visto una rilettura del testo di Giacosa con una proposta avvincente in qualche modo legata appunto all’anniversario della commedia originale, che ebbe all’epoca un successo enorme.
Interessante la lettura sul sito Soloscacchi del lavoro di Giacosa, scritta da Marramaquis: “Giacosa scelse però di cambiare il finale della ballata provenzale da cui trasse ispirazione: infatti il protagonista dell’originale, Huon de Bordeaux, vinse, sì, la partita, ma preferì il vile denaro alla mano della donzella. La partita ha luogo nel castello dei conti di Challant, ad Issogne, in Valle d’Aosta.
Il dramma di Giacosa, dopo la sua prima rappresentazione in Napoli, fu per vari anni presentato anche nel castello di Verrès, nei pressi di Issogne”.
Ed è quanto avviene ancora, ricordando di fatto l’affezione di Giacosa verso la Valle d’Aosta in suoi diversi libri, al di là del giudizio che si può dare sulle sue opere letterarie.
 Più avanti, dallo stesso articolo citato, si legge: “Nel 1885 Giacosa è incaricato dell’insegnamento di Storia e letteratura applicata alle arti presso l’Accademia di Belle Arti di Torino.
Nel 1886 pubblica “Novelle e paesi valdostani”, e via via debuttano sue nuove opere teatrali quali “La zampa del gatto”, “La sirena”, “Diritti dell’anima” e la stupefacente e notissima “Tristi Amori”.
I critici italiani continuano tuttavia ad essere poco teneri con Giacosa, con misura inversamente proporzionale al grande successo di pubblico. Giovanni Verga si muove a scrivergli (1889) una lettera di solidarietà, nella quale si scaglia senza mezzi termini contro i malevoli critici “….quello che mi stomaca di più è vedere come il canagliume abbia potuto guastare anche quello stupendo capolavoro che è Tristi Amori”.
Giacosa si trasferisce a Milano nel 1888, con la moglie Maria Bertola, sposata nel 1877, e le tre figlie, ma torna spesso al paese natale in Piemonte e ai suoi amati castelli in Val d’Aosta. Qui è ambientata un’altra sua celebre commedia, “La dame de Challant”, presentata in prima al Teatro Carignano di Torino il 14 ottobre del 1891, con la grande Eleonora Duse nei panni della protagonista (e in America da un’altra grandissima attrice, Sarah Bernhardt).
Nel dicembre1897 è pubblicato il volume “Castelli valdostani e canavesani”. Giacosa era solito definirsi con orgoglio “un montanaro”, e l’amore per le sue terre e i castelli piemontesi e valdostani è una costante dei suoi lavori”.
Segue una minuziosa ricostruzione della notevole mole di lavoro del Giacosa, con una conclusione che ci porta al punto di partenza: “Eppure, nonostante questa poliedricità e nonostante i successi e la fama, Giacosa veniva spesso etichettato come l’autore di “Una partita a scacchi”. E lui ne sentiva un poco il fastidio. Se ne ha dimostrazione in una lettera inviata al Direttore del “New York Drammatic Mirror”, nella quale così si esprimeva:
“Amo la Partita a scacchi, come si amano i ricordi giovanili, ma per molti anni l’ebbi in dispetto. Ad ogni nuova commedia o dramma che venissi scrivendo, mi si opponeva sempre da tutti la Partita a scacchi. Ciò mi pareva umiliante. Ora che ho i capelli grigi, ora che la Partita a scacchi non saprei scriverla più, mi piace esserne chiamato autore, e provo un certo sentimento di particolare tenerezza, verso quel mio primissimo lavoro che seppe accompagnarmi tanto innanzi nella vita. La tenerezza d’altronde ha un’altra ragione. Un giorno, parecchi anni or sono, ricevetti da Berlino una lettera ed un opuscoletto. Apro la lettera, cerco la firma e ci leggo Teodoro Mommsen. Il grande storico, mi diceva che per regalo di nozze ad una sua figliuola egli aveva tradotto in versi tedeschi la Partita a scacchi, e mi domandava di approvare la privata edizione col testo italiano da una parte colla tradizione tedesca dall’altra. D’allora in poi, il mio breve lavoro corse con fortuna molti teatri d’Europa; ma il suo maggior trionfo fu l’aver avuto un Mommsen a traduttore”.
Resta, al di là di tutto, l’importanza di ricordare l’anniversario, anche se non sempre ai valdostani piacque qualche stereotipo sui montanari inventato nelle sue opere da Giacosa.

Egitto dolente e bomba demografica

Mi mancava la scoperta del Nilo, il fiume che più di altri mi colpì nell’infanzia assieme alla storia complicata ma avvincente degli egiziani. Stando sul campo si svela, di visita in visita, una cultura davvero ben più che millenaria con la difficoltà oggettiva di capire il dipanarsi delle dinastie e il succedersi dei faraoni e delle guerre fra i popoli di quest’area culla di diverse civiltà. Gli aspetti religiosi, con un pantheon così ricco da lasciare interdetti e capire meglio la semplificazione del monoteismo, marcano questa cultura e le tombe - non solo con le piramidi o con veri e propri santuari scavati nella roccia - evidenziano quel culto dei morti che contraddistingue la nostra umanità.
Percorrere il Nilo su di una motonave riempie di emozione in quel navigare pigro, che ti consente di osservare le rive e di vedere flash di vita quotidiana con la conferma di come l’acqua sia l’elemento vivificatore anche in territori desertici.
La diga di Assuan, nella sua enormità (43 milioni di metri cubi!), ha cambiato il fiume: a monte non ci sono più coccodrilli e il celebre limo non fertilizza più i campi. Questo enorme lago ha seppellito i villaggi nubiani e solo templi e statue sono stati spostati a beneficio dei turisti, che si affollano come formiche brulicanti, guardando la decadenza che trasfigura luoghi che furono vette di sistemi politici complicati e che oggi vivono di memorie del passato.
Il turismo resta una delle spine dorsali dell’economia di un Paese che ha avuto il colonialismo, l’abbraccio con l’Unione Sovietica, il braccio di ferro pacificato con Israele e soprattutto una democrazia abortita con gli islamisti che spingono, militari che imperano dappertutto e con dittatori di fatto che si susseguono in un sistema politico che nulla ha a che fare con una democrazia e che non riesce a risolvere problemi endemici di povertà e sottosviluppo.
Il “caso Regeni” è una ferita tutta italiana con un giovane ricercatore torturato e ucciso dagli sgherri dei servizi segreti senza che ci sia un condannato e c’è la vicenda di Patrick Zaki, studente egiziano a Bologna, vittima di una Giustizia che è difficile definire come tale, perché rinvia le scelte, usando questo giovane come spauracchio per qualunque oppositore.
Piange il cuore avere la consapevolezza di grandi risorse culturali affondate in una generale sciatteria e in mancanza di visione. Penso allo spettacolo ”sons et lumières” sotto le Piramidi tecnologicamente ridicolo, come esempio dell’ arretratezza.
Le rivoluzioni varie che hanno scosso la storia contemporanea dell’Egitto - compresa la cosiddetta “primavera araba” - non ne hanno mai risolto i problemi di fondo e anche il più distratto dei visitatori riparte con un fondo di amarezza e di pietas frutto di dialoghi con chi ha consapevolezza delle nubi scure sul futuro anzitutto dei loro figli.
Leggevo sul Guardian un articolo sulle megalopoli africane, come Il Cairo, e sulle sfide del futuro che illuminano uno scenario da affrontare, anche se spaventa: “Oggi in Africa vivono 1,4 miliardi di persone. Secondo studiosi come Edward Paice, autore di Youthquake. Why African demography should matter to the world (Terremoto giovanile. Perché il mondo dovrebbe interessarsi alla demografia africana), intorno al 2050 saranno il doppio. In base alle stime dell’Onu, entro la fine del secolo l’Africa, che nel 1950 aveva meno di un decimo della popolazione mondiale, conterà 3,9 miliardi di abitanti, il 40 per cento dell’umanità.
Sono cifre vertiginose, ma non restituiscono il quadro completo. Dobbiamo scendere un po’ più nei dettagli. Questa crescita straordinaria si concentrerà nelle città. Se consideriamo il fenomeno in questi termini, la posta in gioco diventa più chiara. In occidente molti analisti commentano con allarmismo lo sviluppo demografico africano, perché guardano soprattutto alle sue ripercussioni sulle migrazioni in Europa. Le misure che i governi africani prenderanno per gestire la più rapida urbanizzazione della storia dell’umanità avranno degli effetti sulla decisione di milioni di persone di restare nel loro paese o lasciarlo. Una recente indagine condotta da una fondazione sudafricana ha scoperto che il 73 per cento delle ragazze e dei ragazzi nigeriani è interessato a emigrare entro i prossimi tre anni. Tuttavia, considerata la sua portata, questa storia avrà implicazioni molto più grandi, con ricadute in ogni ambito, dalla ricchezza economica mondiale al futuro degli stati africani, alle prospettive di rallentare la crisi climatica”.
Non è questione solo di barconi e affini. È il contraltare, in qualche modo, al gelo demografico di gran parte dell’Occidente. E il ragionamento che pare ipocrita del “aiutiamoli a casa loro” funziona solo sapendo che certi pensieri, pur giusti sui flussi da regolare per vivificare le nostre società ed economie e solidarizzare con i perseguitati, non possono - come già sta i. Parte avvenendo - significare lo svuotamento delle élite intellettuali e professionali di certi Paesi. Pena una frattura sempre più profonda che spingerà, nel caso africano, ad un assalto crescente e selvaggio, sfruttato da nuovi schiavisti, verso l’Europa.

Aspettando gli extraterrestri

I cimiteri sono pieni di generazioni di ufologi morti, aspettando di poter dimostrare l’esistenza degli extraterrestri. Esistono vere e proprie sette che si scambiano da sempre materiale di vario genere sul tema avvistamenti e scavano inutilmente sui misteri complottisti della famosa area 51 nel Nevada, dove giacerebbero i corpi di alieni.
Il filone dei film di fantascienza si è sbizzarrito sul tema è non sempre con il lieto fine, oscillando fra nostro tipo Alien e esseri così intelligenti da considerarci bestie da soma da conquistare e distruggere, dimenticando la circostanza che siamo già bravissimi a farci male da soli senza aver bisogno di avere invasori in arrivo da altre galassie.
Ora questa storia del possibile arrivo di altre civiltà presso la nostra piccola Terra si sta normalizzando e lo dimostrano almeno due filoni. Il primo, da telefilm, e quando la Camera o il Senato americani appena delle inchieste e piano piano arrivano le Forze armate con documenti e filmati i a dire che qualcosa di inspiegabile incomincia a filtrare. Che poi siano i “marziani” (anche se su Marte ormai si sa che non c’è) o i cinesi che si sono inventati qualche diavoleria volante difficile dire…
Fatto sta che sui Social si vede ormai di tutto, facendo la gioia di chi per fortuna svela trucchi e furberie, oggettivamente sempre più difficili da scovare con le attuali sofisticate tecnologie sulle immagini, cui si aggiunge la solita buona dose, che non passa mai e spopola sui Social, della credulità popolare.
Eppure quanti di noi, guardando un cielo stellato dalla cima di una montagna o stesi su di una spiaggia, si sono ingenuamente chiesti: “Ma perché mai ci dovremmo essere solo noi?”. Peggio ancora con certi filmati nel planetari, da cui esci sentendoti meno di un granello di sabbia di fronte all’immensità del cosmo.
Ha scritto il famoso Stephen Hawking: “Come si spiega dunque la mancanza di visitatori extraterrestri? È possibile che là, tra le stelle, vi sia una specie progredita che sa che esistiamo, ma ci lascia cuocere nel nostro brodo primitivo. Però è difficile che abbia tanti riguardi verso una forma di vita inferiore: forse che noi ci preoccupiamo di quanti insetti o lombrichi schiacciamo sotto i piedi? Una spiegazione più plausibile è che vi siano scarsissime probabilità che la vita si sviluppi su altri pianeti o che, sviluppatasi, diventi intelligente. Poiché ci definiamo intelligenti, anche se forse con motivi poco fondati, noi tentiamo di considerare l'intelligenza una conseguenza inevitabile dell'evoluzione, invece è discutibile che sia così. I batteri se la cavano benissimo senza e ci sopravviveranno se la nostra cosiddetta intelligenza ci indurrà ad autodistruggerci in una guerra nucleare. [...] Lo scenario futuro non somiglierà a quello consolante definito da Star Trek, di un universo popolato da molte specie di umanoidi, con una scienza e una tecnologia avanzate ma fondamentalmente statiche. Credo che invece saremo soli e che incrementeremo molto, e molto in fretta, la complessità biologica ed elettronica”.
Tullio Regge, fisico anche lui, che conobbi personalmente, obietta: “Non ho assolutamente prove, ma credo all'esistenza della vita extraterrestre in qualche parte del cosmo. Penso che sarebbe uno spreco ingiustificabile la creazione di un universo sterminato e vario come il nostro che avesse come unico risultato finale la vita terrestre”.
Ovvio che lo stato d’animo è sempre contrastante. Da una parte, sarebbe bello avere in casa un alieno buono, tipo ET di Spielberg, mentre faremmo a meno di quell’orrore dei Visitors che si vedevano in TV qualche anno fa.

Regole per l’Intelligenza Artificiale

Sento molte cose interessanti sull’Intelligenza Artificiale, perché molti di noi hanno giochicchiato con i prodotti già in circolazione. So bene come questi siano solo la punta di un iceberg molto più corposo, che in certi settori - la Difesa è sempre al primo posto - ha raggiunto livelli elevatissimi nelle applicazioni.
Tanto che chi se ne intende, come il miliardario Elon Musk con una serie di esperti del settore tech, ha proposto un appello per chiedere una pausa nello sviluppo dei potenti sistemi di intelligenza artificiale (AI) per concedere il tempo necessario a elaborare regole per il suo controllo. In materia più terra a terra sono molti a ipotizzare scenari da fantascienza con robot che sostituiranno noi uomini con conseguenze sociali drammatiche, ad esempio nel mondo del lavoro.
Ne ha scritto su Le Monde il sociologo Juan Sebastian Carbonell:
“Ces discours technofatalistes et apocalyptiques n’ont rien de nouveau. Après tout, à chaque révolution industrielle a été proclamée la disparition du travail et a été opposé le « progrès technologique » au bien-être des travailleurs et des populations, même si jamais de telles prédictions ne se sont confirmées”.
Ma esiste forse un elemento di riflessione del sociologo che stuzzica e cioè che vale anche il contrario e cioè una esaltazione dei risultati raggiunti per spingere una “bolla” economica importante: ”D’abord, d’entrepreneurs du secteur du numérique qui cherchent à faire parler de leurs services et à attirer des financements. C’est ce qui explique que les discours sur les révolutions technologiques sont hyperboliques et exagérément optimistes. Ce n’est donc pas un hasard si, après l’engouement autour de ChatGPT en début d’année, Microsoft a décidé d’investir 10 milliards de dollars (9,1 million d’euros) dans OpenAI, entreprise propriétaire du robot conversationnel”.
Anche Google spinge non caso nel settore e Carbonell, con molto realismo, spiega come esista intanto in tutto questo settore digitale uno stato di precarietà, com’è avvenuto - questo lo ricordo io - con licenziamenti decisi da Facebook è da Twitter: “Les discours enthousiastes sur les nouvelles technologies ont une fonction : ils contribuent à leur acceptation, au-delà de leurs conséquences sociales ou politiques, et deviennent une sorte de prophétie autoréalisatrice. La croyance en une révolution technologique favorise l’allocation de ressources supplémentaires pour le développement de ces technologies et leur introduction sur les lieux de travail, renforçant à son tour l’idée d’une révolution technologique”.
Insomma: un tema assai complesso e di cui capire le conseguenze passo a passo o molti aspetti li capiremo solo vivendo. Quel che è certo è che tra i catastrofisti e gli eccessivamente ottimisti esiste un juste milieu. Il progresso non si ferma mai e i possibili rischi di qualunque nuova tecnologia vanno sempre arginati dalle regole e dal loro rispetto.
Conta dunque la reazione dei legislatori, sapendo quanto la democrazia sia in gioco, visto che i player della Intelligenza Artificiale hanno dimensioni globali che pretendono da parte degli Stati risposte condivise ed efficaci. Non è facile e sappiamo già quanto siano troppo spesso inefficaci le istituzioni internazionali, cui spetterà il ruolo di avere una governance seria per evitare che certe preoccupazioni legittime si trasformino in rischi reali.

Verso il 18 maggio

Manca ormai poco all’appuntamento del 18 maggio (giorno della scomparsa della fulgida figura di Émile Chanoux e quindi un simbolo). che spero sarà davvero la prima tappa verso una réunion, réunification, recomposition o come diavolo la si voglia chiamare dell’area autonomista. Una specificità della vita politica, pubblica e istituzionale che va mantenuta e deve essere rilanciata, pur tenendo conto di come le cose nel tempo cambino e di come ci sia bisogno di un sussulto di orgoglio e di idee precise e contemporanee per la nostra amata Valle. Da guardare sempre con fierezza identitaria, sentendosi nel contempo cittadino del mondo, perché il nostro non è un nazionalismo giacobino, ma un patriottismo buono.
Basta guardare l’atto fondativo dell’Union Valdôtaine del 1945 per capire dove si voglia andare con le opportune modernizzazioni rispetto all’oggi, anche se anche già allora molti dei firmatari fecero poi scelte diverse, andando verso i partiti nazionali. I migliori restarono fedeli alla scelta autonomista, come molti di noi, che - pur uscendo a suo tempo e con profondo dolore dal Mouvement - oggi credono che ci siano regole e modi per ripartire uniti.
Circostanza quella di chi sceglie partiti nazionali, allora come ora, che abbiamo visto anche noi autonomisti in questi anni. Infatti, oltre alla diaspora unionista, abbiamo potuto osservare un fenomeno interessante. Se ne sono andati altrove e non saranno della partita il 18 maggio coloro che avevano scelto l’UV solo per opportunismo e che se ne sono andati altrove - una molto casi aggiungerei ”per fortuna!” - per la medesima ragione. Auguro a loro successi e fortuna e su alcuni già in passato avevo espresso perplessità non ad personam, ma con la preoccupazione della malafede di chi sale sul carro dei vincitori solo per ottenere dei vantaggi e non per un credo.
Mi rivolgo in particolare a due categorie in vista del 18. Agli scettici di tutti i gruppi autonomisti, che vivono di vecchi rancori sotto i rispettivi campanili e anche - per essere onesti - di preoccupazioni legittime sulla tenuta di un rimettersi assieme, dopo liti, separazioni e parole grosse che ci sono state gli uni contro gli altri. Nessuno chiede perdono a nessuno - lo dico reciprocamente - ma esiste un interesse superiore per il nostro futuro come popolo valdostano e chi si attarda in polemiche o in preoccupazioni talvolta più personali che politiche non rende un buon servizio alla causa comune.
Il secondo appello riguarda giovani ma pure meno giovani che non abbiano mai militato in area autonomista. E ora di esserci e di scegliere e mi riferisco a chi non ha mai scelto la strada di una militanza politica o si è approcciato in passato, restandone deluso. Capisco tutto e so quanto ci siano comprensibili elementi di delusione o sfiducia, ma è proprio con il proprio impegno personale che si possono migliorare le cose.
Il percorso avviato spero porterà al risultato sperato contro gli scetticismi e i sabotaggi e che possa vedere coi miei occhi un ritorno a epoche in cui, fra liti furibonde e confronti sanguigni, si arrivava infine a scelte comuni per risolvere problemi concreti, aggiungendo al sano pragmatismo anche quegli elementi ideali senza i quali la politica sarebbe solo amministrazione senza valori e speranze. A questi ultimi ci si deve ispirare per dare un senso più elevato al nostro impegno e alla nostra vita.

Per il 25 Aprile ci sono perché…

Sono fuori Valle per questo 25 aprile, ma è come se ci fossi:
Ci sono perché vengo da una famiglia antifascista;
Ci sono perché aborro fascismi vecchi e nuovi e anche le altre forme di totalitarismo;
Ci sono perché questa è una Festa che nasce da un momento di gioia e di Liberazione;
Ci sono perché ho avuto partigiani in casa (il più giovane, zio Mario, aveva 16 anni!) e ne ho conosciuti tanti e li ho ammirati;
Ci sono perché la Resistenza fu, laddove ci fu e ciò non avvenne in tutta Italia, un movimento con tante anime;
Ci sono perché la Resistenza ha significato “salire in montagna”, rifugio e culla di libertà per i partigiani;
Ci sono per affermare che nessuno può impadronirsi, come nulla fosse di valori democratici di tutti, usando solo le proprie bandiere;
Ci sono perché i miei figli sono stati educati ai valori e alle idee che li rendono persone libere;
Ci sono perché dal 25 aprile nasce il lievito che portò alla Costituzione e all’Autonomia della mia Valle anche grazie a chi veniva dal mondo autonomista e federalista in cui credo;
Ci sono perché odio chi infrange la libertà altrui e non può festeggiare questa data chi fa occhiolino ai russi invasori dell’Ucraina;
Ci sono perché da certe radici - compresa la “nostra” Dichiarazione di Chivasso - è nata l’odierna Unione Europea, baluardo della Pace in Europa;
Ci sono perché mio papà e mio zio Émile furono internati in Germania perché non aderirono alla Repubblica di Salò;
Ci sono perché mio papà aiutava durante la guerra a portare gli ebrei in fuga in Svizzera e poi, paradosso, si trovo alle porte di Auschwitz;
Ci sono perché mio nonno, Prefetto di carriera, venne cacciato dal Regime perché considerato non fedele dai fascisti;
Ci sono perché mio zio Ulrico fu capo partigiano di Giustizia e Libertà e mi raccontò tutto;
Ci sono perché il mio collega al Parlamento era il partigiano César Dujany, fieramente cattolico e autonomista;
Ci sono perché mia zia Eugénie venne sospesa dall’insegnamento non avendo portato i suoi allievi al funerale di un gerarca fascista;
Ci sono perché mio zio Séverin (erede in politica di Émile Chanoux), mio zio Antoine (morto purtroppo per un incidente il giorno della Liberazione di Aosta) e mia nonna Clémentine furono nella Jeune Vallée d’Aoste sin da subito;
Ci sono perché mia mamma adolescente, con le due sorelle ragazzine e i miei nonni, dovettero fuggire in campagna per evitare i bombardamenti;
Ci sono perché mi sono stufato di negazionismo e revisionismi delle stupidaggini pericolose dei nostalgici;
Ci sono perché “ora e sempre Resistenza” non giustifica un uso violento dei valori resistenziali di certi facinorosi.
Ci sono perché “Insieme a oppressione e sangue, volgarità e cattivo gusto, la caratteristica principale di una dittatura fascista è l’ignoranza, il disprezzo per la cultura, l’analfabetismo”(Oriana Fallaci)
Ci sono infine perché sono contro qualunque dittatura: “ll suddito ideale del regime totalitario non è il nazista convinto o il comunista convinto, ma l’individuo per il quale la distinzione tra realtà e finzione, tra vero e falso, non esiste più” (Hannah Arendt)”.

Valens è Lassù

Muore Paolo, il mio più cara amico ai tempi del Liceo e lo fu poi negli anni successivi. Undici anni fa aveva scoperto di avere un cancro al pancreas. Mi telefonò allora per dirmi che aveva pochi mesi di vita. Era disperato. Poi, a dispetto della diagnosi infausta, reagì ad una cura, partecipò a congressi medici come esempio positivo e collaborò con l’associazione sui tumori neuroendocrini, cui si rivolse anche un mio conoscente malato e lui fu gentile e disponibile, come da suo carattere.
Valens, come lo chiamavamo a scuola usando un latinismo per scherzare sul suo cognome, era un canavesano doc e ci teneva. Con lui, acuto e scherzoso, abbiamo non solo studiato e giocato a scuola in un clima divertente e goliardico, proseguito anche nei primi anni di Università. Ogni tanto si saliva a casa sua a La Thuile e il clima era sempre da ”Amici miei”: quella complicità che si crea con persone che si capiscono al volo e hanno una legittima joie de vivre. La stessa chimica che ci ha legati sino ad oggi, anche quando non ci si sentiva abbastanza per le strade diverse della vita. Preziosi gli incontri con tutti i compagni di classe della nostra Terza B del Liceo Classico Carlo Botta di Ivrea. Un campionario di personalità varie, affiatato ancora ora come allora e con legami forti non spezzati dalla Maturità del 1978. Lo dimostra un bizzarro gruppo Whatsapp con cui comunichiamo da tempo, come se fossimo seduti in classe nei nostri rispettivi banchi.
Paolo ha scoperto il ritorno del cancro alla fine dello scorso anno e non me lo ha detto. Penso che ritenesse con il suo garbo di dirmelo ad allarme spento. E invece - quando lo abbiamo scoperto - è andato tutto diversamente e non ha voluto vedere me e neppure altri, lasciando il mondo con quel suo modo di fare sabaudo, di cui era fiero e assieme un pizzico caustico.
Lascia il suo amato figlio, la cara mamma e la compagna che lo ha assistito nel suo ultimo tratto di vita.
Purtroppo non me la sento di sorridere, come avevamo sempre saputo fare, anche quando le cose non giravano come avremmo voluto. Però mi sforzo di pensare solo alle cose belle, a come si stava bene assieme e a come sapevamo distillare il buono e scartare il cattivo.
Aveva scelto per senso del dovere, avendo perso il papà troppo giovane, di restare a lavorare nel tuo grande mulino industriale del Canavese. Gli avevo chiesto qualche tempo fa di capire le conseguenze sul prezzo del grano a causa della guerra in Ucraina e me lo avevo spiegato bene con la competenza di chi, ogni settimana, combatteva alla Borsa del grano a Torino. Ora so che stava già combattendo una battaglia ancora più difficile.
Ora mi rivolgo a te.
Chissà cosa avresti fatto nella vita, se avessi tagliato il cordone ombelicale con il mulino. Penso che con la tua intelligenza avresti potuto fare qualunque cosa e so bene che la routine un po’ ti annoiava, come certe ingiuste delusioni d’amore ti avevano ferito, ma eri troppo responsabile per lamentartene ed eri sempre attento - ad impegnare il tuo grande cuore - al tuo ruolo di papà.
Ora te ne vai troppo presto e fallisce quella nostra idea di passare più tempo un giorno assieme, quando saremmo stati vecchi come il cucco e, invece, ti sei portato avanti e io ti voglio bene, perché nessuno - neppure il maledetto tumore - può cancellare i nostri ricordi con quella nostra giovinezza piena di gioia, ideali e speranze. Ricordo come oggi quando il Professore di Filosofia ci fece illustrare quella nostra teoria sul ciclo della vita e sul fatto che non si moriva mai davvero. Per non dire delle discussioni infinite sul mondo nelle sere passate in via Gioberti a Torino in quella specie di comune di studenti, cui partecipava - come saggio - anche mio fratello Albert!
Sappi, caro Valens, che sarai con me finché vivrò e magari ci rivedremo Lassù.
Valens era fiero di essere stato Alpino e come dice il canto “Signore delle Cime”:
Santa Maria, Signora della neve, copri col bianco, soffice mantello
il nostro amico,
il nostro fratello.
Su nel Paradiso,
su nel Paradiso lascialo andare
per le sue Montagne.

Preoccupazioni alpine

Gira che ti rigira alla fine molte comparazioni che riguardano il territorio valdostano guardano obbligatoriamente verso Trento e Bolzano, le due Province autonome sono - fra i territori italiani che godono di un’autonomia speciale - quelli più simili a noi.
Per questo leggo ogni giorno le notizie che vengono dal Trentino-Alto Adige/SüdTirol e trovo sempre argomenti interessanti e di questi tempi spicca la questione dell’orso e già da tempo gli interventi loro, talvolta concertati con noi, sul lupo è la sua espansione.
Leggevo in queste ore di questa preoccupazione che ci accomuna sul Corriere dell’Alto Adige: “Circa l’80% delle aziende alpicole altoatesine vede nel ritorno dei grandi predatori la sfida principale da affrontare. Per fare un paragone, la scarsità d’acqua è percepita come un problema da meno del 20%. L’analisi, pubblicata dall’Istituto ricerca economica della Camera di commercio di Bolzano, ha riguardato 420 aziende alpicole attive. Un tema, purtroppo, tornato drammaticamente d’attualità dopo quanto successo a Caldes.
In Alto Adige, da sempre gli agricoltori chiedono maggiori tutele per gestire lupi e orsi: le misure di tutela considerate più urgenti sono soprattutto la regolazione della popolazione di animali pericolosi, l’eliminazione di quelli problematici e la realizzazione di zone senza la presenza di lupo. Anche perché difendersi significa far aumentare le spese di manutenzione. Lo ha ribadito il presidente del Bauernbund Leo Tiefenthaler: «L’alpicoltura tradizionale è incompatibile con la diffusione dei grandi predatori: senza una regolazione puntuale di queste specie, gli animali non saranno più estivati e i pascoli alpini saranno abbandonati, con conseguenze devastanti per il paesaggio, la biodiversità e il turismo»”.
Sono tali e quali - per fortuna sinora senza l’orso - gli argomenti a difesa dei nostri alpeggi e del ruolo capitale di conservazione di ampi spazi del territorio montano. Ma, per alcuni è cioè soliti noti ambientalisti della domenica e degli animalisti salottieri, a dar fastidio sono le attività umane e gli animali allevati sono evidentemente considerate creature di serie B, adatte al sacrificio in nome dei predatori.
Ancora l’articolo, che cita un mio vecchio amico: “Sul tema è nettissimo anche il presidente della Camera di commercio, Michl Ebner: «Il lupo è attualmente una delle principali minacce per gli animali estivati e poiché non è più a rischio di estinzione, il quadro giuridico dovrebbe essere adattato per consentire la regolazione della popolazione e creare zone prive di lupi».
E proprio la regolamentazione dell’abbattimento dei grandi carnivori è uno dei dossier aperti tra la Provincia, il governo nazionale e l’Unione europea: «La conservazione dell’alpicoltura è uno degli obiettivi principali a livello politico ed è di conseguenza sostenuta anche con sovvenzioni. Tuttavia, l’alpicoltura rimane una sfida e ne siamo consapevoli. Per quanto riguarda il problema dei grandi predatori, la situazione attuale in Trentino ha dimostrato quanto sia difficile regolarli. È quindi importante lavorare insieme ad ogni livello. Da parte mia, continuerò ad impegnarmi affinché le aziende alpicole mantengano il loro importante ruolo anche in futuro».
Possibile che certe necessità non vengano capite e basta scrivere qualcosa sugli abbattimenti selettivi e ci si trova di fronte ad una cabra di polemiche e di insulti sui Social?
Ritrovo una vecchia intervista, assai illuminante, fatta da Matteo Nicco su la Repubblica, allo scrittore e filosofo basco,Fernando Savater, in cui si occupa degli animalisti l’antispecismo, forma radicale dell’animalismo, che promuove con toni che arrivano all’abbruttimento della natura umana nella visuale del superamento del cosiddetto specismo, ovvero della concezione secondo la quale la specie umana è superiore a livello ontologico e morale rispetto alle altri specie animali.
Savater: «Il problema dei nostri giorni è che, soprattutto in città, non si sviluppa più alcuna relazione con gli animali. Io ho conosciuto una Spagna rurale. Qui fuori, sulla Gran Via, passavano le pecore per la transumanza. Oggi si conoscono solo gli animali di Walt Disney e si stenta a vedere in cosa essi siano diversi dagli uomini. Ciò ha portato a una sorta di antropomorfizzazione degli animali. Una tendenza che spinge ad accreditare le forme più estreme di animalismo, come l' antispecismo di Peter Singer, ossia l' idea che tra le specie animali non ci siano distinzioni di sorta».
E ancora: «Non distinguere gli uomini dagli altri esseri viventi è nefasto. Perché la morale riguarda solo gli esseri umani. Purtroppo però ormai si tende a scambiare la morale con la compassione. Ora, la compassione è un sentimento buono, per carità, e tuttavia non è la morale. Vede, è molto più semplice di quanto si creda. Mettiamo che passeggiando trovo un passerotto caduto dal nido. So che è in pericolo e poiché sono persona compassionevole, lo raccolgo e lo metto in salvo. Questo è molto bello. Ma è ben diverso dal caso in cui io mi imbattessi in un neonato abbandonato per strada. Lì non si tratta di compassione. Io ho il dovere morale di occuparmene. Questa differenza non la intendono gli antispecisti. Singer è arrivato a dire che se mi trovo di fronte un bambino con tare mentali o fisiche irreversibili e un vitello in perfetto stato devo scegliere il vitello e sopprimere in culla il bambino senza farlo soffrire».
L’estremismo è una brutta storia e investe con la sua forza bruta ogni forma di razionalità e ciò avviene anche nel ragionare sul rischio vero che sulle Alpi non ci siano limiti alcuni allo sviluppo di predatori senza competitori, che non sia l’uomo.

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