Quando le regole sono sostanza

Non sono mai stato un ‹àrbiter eleġanzi̯àrum› (tradotto dal latino.«arbitro delle eleganze») quell’appellativo che - da Treccani - viene usato oggi, spesso ironicamente, “a proposito di persona raffinata e ricercata nel vestire; dato da Tacito (ma nella forma elegantiae arbiter, Annali XVI, 18) a un Gaio Petronio, identificato di solito con Petronio autore del Satyricon”.
Non credo neanche di essere mai stato un maniaco del Galateo, che racchiude in sé tutte le norme e buone usanze che ogni persona dovrebbe seguire nelle varie situazioni pubbliche, siano esse momenti particolari della vita di ogni individuo (matrimoni, feste o lutti), oppure situazioni più comuni, come cene in un ristorante, incontri con un amico, viaggi e doni. Galateo la cui origine viene dall’opera scritta da Giovanni Della Casa, pubblicata postuma nel 1558 e intitolata, appunto, Galateo overo de’ costumi.
Vi è poi - altro riferimento - il Cerimoniale (dal latino caerimōnĭa ‘venerazione delle cose sacre, culto’), che ho visto all’opera nella sua versione laicizzata nei miei ruoli nella sfera pubblica. Si tratta del complesso delle norme e procedure, scritte o tradizionali, che presiedono alla celebrazione di un atto solenne, avente carattere civile o religioso, o che sono imposte in determinati ambienti e circostanze, tipo incontri e manifestazioni. Si può usare, abbastanza sovrapponibile, anche il termine Protocollo e cioè nient'altro che un regolamento, un manuale di regole e costumi da seguire.
Vi è infine in termini più generali l’Educazione (dal verbo latino educĕre o educare,entrambi con il significato di «trarre fuori») è l'attività, influenzata nei diversi periodi storici dalle varie culture, volta allo sviluppo e alla formazione di conoscenze e facoltà mentali, sociali e comportamentali in un individuo. Da qui il tratto distintivo fra educato e maleducato, che dice più di mille parole.
Cosa c’entra questo ragionamento? Queste diverse materie che fissano paletti nei comportamenti personali e sociali rischiano ormai nella quotidianità di essere spazzati via, come se si trattasse di cascami del passato da sradicare in una logica dell’informale, del casual e persino dell’inciviltà, come apparente e salvifica rottura di schemi tradizionali.
Non sono d’accordo: ci sono regole, usi, costumi, consuetudini, prassi che dal piccolo al grande, dal privato al pubblico devono inquadrare la nostra vita, pur nel rispetto dei cambiamenti e nell’eliminazione di quanto palesemente obsoleto.
Certo “rompete le righe” che vedo in giro è solo barbarie. Lo vedo, riprendendo i punti, dal look (come si dice oggi) e cioè da persone che in circostanze in cui si richiederebbe un certo abbigliamento scelgono una mise del tutto stridente.
Idem per il Galateo con certe situazioni a tavola in cui si rompe ogni logica di bon ton su questioni essenziali di postura e di uso - che so - di forchetta e coltello.
Che dire poi del Cerimoniale e del Protocollo, che spesso vengono come stracciati in occasioni importanti con imbarazzo generale o peggio ancora con difficoltà di capire come esattamente ci si debba comportare per evitare errori o cattive figure.
A cappello di tutto, ma questo dovrebbe essere anzitutto appannaggio della famiglia, c’è l’Educazione sulla quale credo sia inutile un eccesso di spiegazione, sapendo che vola alto nelle speranze di noi genitori.
Se non un ragionamento della scrittrice Natalia Ginzburg: ”Per quanto riguarda l'educazione dei figli, penso che si debbano insegnar loro non le piccole virtù, ma le grandi. Non il risparmio, ma la generosità e l'indifferenza al denaro; non la prudenza, ma il coraggio e lo sprezzo del pericolo; non l'astuzia, ma la schiettezza e l'amore alla verità; non la diplomazia, ma l'amore al prossimo e l'abnegazione; non il desiderio del successo, ma il desiderio di essere e di sapere. Di solito invece facciamo il contrario: ci affrettiamo a insegnare il rispetto per le piccole virtù, fondando su di esse tutto il nostro sistema educativo”.

Le radici dell’autonomismo

Bene si farà a riunificare le forze autonomiste e credo che il percorso in atto sia indispensabile a chiusura di divisioni che oggi debbono essere superate. Solo un confronto franco e regole condivise porteranno ad un risultato duraturo, che risulta indispensabile per il futuro della Valle.
Ne ho scritto molto in questi anni e da ora, come mi è già capitato di fare, ne parlerò solo nelle sedi opportune e cioè in quelle assemblee pubbliche che piloteranno per tappe l’operazione sino allo sperato risultato di un congresso rifondativo. Con la necessità di sfatare la diceria dell’operazione dall’alto e non dal basso: tema ormai vecchio e stravecchio!
A dire il vero questa questione dell’autonomismo è di certo una questione politica rilevante, ma esiste qualche cosa di prepolitico su cui tutto si fonda. E di questo vorrei scrivere.
È indubitabile - limitandoci alla storia contemporanea - come il senso identitario profondo e radicato del popolo valdostano si sia manifestato nel dopoguerra anche nella nascita dell’Union Valdôtaine. Non fu dunque un’operazione artificiosa, ma esattamente corrispondente ad un sentimento popolare e ad una chiara visione identitaria. Un nazionalismo buono - chiamiamolo patriottismo - nato non a caso contro il nazionalismo tragico e grottesco delle dittature nazifasciste.
Ma una casa deve poggiare su delle fondamenta forti per stare in piedi e lo stesso vale per un albero che senza radici è destinato a rinsecchirsi. Lungi da me voler fare il primo della classe, ma esiste oggi la necessità di ribadire che dietro l’autonomismo ci vuole la consapevolezza e la conoscenza della storia della nostra realtà, la forza della nostra cultura (civilisation in francese ha una maggior pregnanza), la consapevolezza della ricchezza umana e ambientale della nostra terra (anche in questo caso terroir è ancora più forte), la peculiarità dell’essere montanari in un lembo di Alpi che è montagna estrema.
Mio zio Séverin Caveri scriveva: «La conception nazionaliste porte fatalement à l'imperialisme et se compose de deux sentiments parallèles: la surestimation de la patrie et la dépréciation des autres patries. Cette distinction établie, nous affirmons que la divinité de l'Etat-Nation doit descendre dans le limbe des dieux feroce de la tribu».
La logica era contrastare l'idea di una Valle d'Aosta che diventasse, come già detto in premessa, vittima di un nazionalismo "lillipuziano" al posto di un sano “amour pour le Pays” nel quadro di una visione europeista solida e senza dubbi: «Les intellectuels peuvent donc et doivent être le ciment de l'union des peuples de l'Europe: il doivent nourrir les consciences, il doivent répandre l'idée nouvelle de la Patrie européenne».
Questo è un punto importante. La nostra identità diventa più forte in una logica di sussidiarietà: noi e la nostra Autonomia nel rapporto con Roma e Bruxelles. Ma forti di: l’Euroregione AlpMed, la macroregione alpina, la francofonia, il mondo della montagna, le altre Autonomie speciali e le Regioni analoghe in Europa, le minoranze linguistiche in Italia e nel resto del mondo. Reti che ci rendono più forti, ma il tutto va avvolto in idee e principi, perché, come diceva ancora Séverin - uomo retto e onesto e anche questo conta! - «La politique des principes est la meilleure des politiques».
Osservava Karl Popper, fissando una bussola: “Il futuro è molto aperto, e dipende da noi, da noi tutti. Dipende da ciò che voi e io e molti altri uomini fanno e faranno, oggi, domani e dopodomani. E quello che noi facciamo e faremo dipende a sua volta dal nostro pensiero e dai nostri desideri, dalle nostre speranze e dai nostri timori. Dipende da come vediamo il mondo e da come valutiamo le possibilità del futuro che sono aperte”.

Povera Rai

A conti fatti, scontando gli anni di aspettativa per mandato politico, ho lavorato alla Rai a tempo pieno per più di 12 anni (per il resto i contributi per la pensione da giornalista me li sono versati da solo). Periodo spezzato in due, uno prima del mandato a deputato e l’altro vent’anni dopo con un rientro in azienda sino alla scelta di andare in pensione, poco dopo l’inizio della Legislatura regionale attuale.
Per cui ho avuto uno straordinario osservatorio delle differenza fra gli anni Ottanta e il secondo decennio di questo nuovo secolo. Naturalmente su entrambi i periodi ha pesato il mio mutare con il passare degli anni. Agli esordi ero un giovane giornalista con il fuoco sacro del mestiere, riconoscente di una chance unica in un lavoro che amavo profondamente. Mentre il rientro in servizio mi vedeva già attempato e meno tollerante rispetto ad uno scenario che mi pareva in evidente degrado.
La Rai, già un tempo afflitta da logiche clientelari e con invadenza dei partiti, era risultata persino peggiorata. In troppi casi la “raccomandazione” ha mosso verso l’alto persone immeritevoli nella sola logica dell’”amico di…”. Una situazione avvilente e mortificant e risultava persino inutile dolersene più di tanto, essendo come svuotare il mare con un cucchiaino.
Le notizie di queste ore con la giubilazione dell’AD Rai attraverso l’uso del decreto legge, perché si schiodasse, ha riaperto il libro della lottizzazione in modo ancora più plateale del passato. I giornali raccontano di come Tizio esca di scena perché considerato nemico e Sempronio appaia sulla scena come possibile vincitore di un posto di prestigio su spinta di…
Capisco che la pratica non sia nuova. Posso dire, a beneficio del passato remoto, che certe carriere stellari di questi anni non hanno corrispondenza con un maggior garbo del tempo che fu, quando anche il raccomandato doveva avere quel minimo di curriculum per evitare al “segnalatore” di turno di fare brutta figura. Scherzando si diceva: hanno assunto quattro giornalisti, uno democristiano, uno comunista, uno socialista e uno bravo. Una specie di tacito “modus in rebus”, scivolato poi precipitosamente verso il basso in logiche, appunto, da Basso Impero.
Lo dico con dispiacere. Ho lavorato con gioia nel servizio pubblico, convinto del suo ruolo capitale di emittente radiotv pubblica in grado con equilibrio di soddisfare le esigenze di chi paga il canone e domanda qualità e competenza.
Oggi assisto con un disagio profondo a questo crescente mercato di do ut des con personaggi che spuntano nei possibili organigrammi, violando in profondità professionalità e competenze in una specie di calcio mercato in cui contano più la casacca che i contenuti.
Nelle mia parentesi di sindacalista dei giornalisti avevo seguito con stupore certe assunzioni e certe carriere a detrimento di chi svolgeva il suo lavoro con competenza, ma con il solo torto di non avere un santo in paradiso. Ora che sono cambiati i santi le grandi manovre di spartizione appaiono così grossolane da lasciare stupefatti e mi pare che non ci siano grandi moti di indignazione. Ci si abitua davvero a tutto e alla fine la coltre di indifferenza copre le magagne, compresi onore e dignità.
Viene in mente cosa scriveva Enrico Mentana, vecchio amico di gioventù, fuggito dalla Rai per tempo: “C'è di tutto: mantenute, raccomandati, epurati, miracolati. È come l'annuario del Censis: ci si possono leggere tutti i fenomeni sociali. Alcuni da baraccone”.

L’uscita di scena dignitosa

Non sono stato e mai avrei potuto essere un berlusconiano. Lo dico senza nessun intento malevolo, ma ritenendo che la mia formazione sia molto distante da certe posizioni del Cavaliere. Tuttavia, ho persone che stimo che quando il Cavaliere scese in campo furono folgorati dalla sua apparizione nell’agone politico e i successi elettorali lo premiarono.
Alcuni di loro successivamente hanno preso altre strade e c’è persino chi invece - in Valle d’Aosta e direi tardivamente - è diventato berlusconiano in quest’epoca di tramonto del ruolo politico del Silvio nazionale.
Perché dico tramonto? Perché esiste una dura legge umana che non comporta eccezioni, perché avviene per natura un declino fisico che ci accompagna più o meno lentamente sino all’ineluttabile destino.
Non è facile staccare la spina per chi ami la politica e penso non sia solo un problema anagrafico, quando ricordo un mio collega Senatore, César Dujany, che, all’approssimarsi dei cent’anni, analizzava ancora con lucidità molti aspetti della politica in cui aveva vissuto da sempre e lo faceva, tuttavia, come grande saggio, ormai al di sopra di certe miserie con cui in politica tocca avere a che fare.
Ci pensavo, con partecipazione umana e nessun crudele sfottò, guardando il recente video del leader di Forza Italia, classe 1936, in cui è comparso in immagini struggenti con un volto pesantemente truccato e difficoltà di parola dolorosa per un oratore capace come lui. Un mago vero e proprio nell’empatia televisiva, che era elemento cardine del suo indubbio carisma, essendo stato per altro l’uomo della Televisione che spezzò il vecchio monopolio Rai, marchiando di fatto cultura e costumi di parecchie generazioni.
Capisco la generosità dello sforzo per una persona che non vuole cedere alla vecchiaia e anche la necessità per il suo partito di sfruttarne fino all’ultimo quella sua capacità di presentare le proprie ragioni, come ha fatto con successo molte volte negli ultimi trent’anni. Questa volta, però, non si può nascondere la verità ed perciò normale provare pietas per questo vecchio combattente che pare non rassegnarsi al fatto che esista un “the end” anche in politica. Anche se forse il Cavaliere, come capitò a Molière recitando una sua commedia (paradossalmente “Il malato immaginario”), vorrebbe davvero morire sulla scena di fronte al pubblico, cui ha sempre guardato - a favore di telecamere - nella sua vita densa di vicende e non solo di cronaca politica o di cronaca rosa…
Incontrammo, assieme al già citato Dujany, Berlusconi candidato Presidente del Consiglio nel 1994, io avevo 35 anni, César 74 e il nostro interlocutore 58. Era un uomo pieno di vita e svelto nelle interlocuzioni. Ascoltò abbastanza distrattamente le nostre ragioni ed era visibile come il suo approccio alle Istituzioni fosse piuttosto acerbo ma decisionista.
Poi, con sali e scendi, Berlusconi è rimasto protagonista negli anni successivi e lo incontrai in diverse occasioni, ma mai da soli in un faccia a faccia.
È stato nel tempo molto demonizzato e di sicuro la Magistratura non è mai stata tenera con lui. Oggi, a conti fatti, devo dire con onestà che nei rapporti istituzionali, quando ci ebbi a che fare, si dimostrò corretto, talvolta anche più di chi lo dipingeva come una bestia nera.
Questo non per minimizzare errori gravi, svarioni diplomatici, un superego che certo non lo aiutava, conflitti di interesse in materie delicate e certi cascami del berlusconismo. Ma, mi ripeto, bisogna rendere l’onore delle armi a chi comunque - anche se certi passaggi forse un giorno ci diranno di più di lui e delle sue fortune - è stato un protagonista della politica italiana.
La sua uscita di scena, anche per questo, dovrebbe essere serena e dignitosa, evitando che il suo entourage lo trasformi - magari con la sua scelta indefessa di non mollare - in una specie di caricatura dell’uomo che fu.

È davvero stagione di riforme?

Tutto invecchia e questo vale anche per la Costituzione vigente in Italia dal 1948. Non che modifiche non ci siano state: penso al Titolo V in tema di regionalismo cambiato anni fa e ad altre correzioni minori puntuali nel tempo (l’inserimento appena fatto dei temi ambientali nell’articolo 9 è stato scritto con i piedi).
Falliti per il rifiuto popolare due testi di rinnovamento con cambiamenti più profondi, voluti prima da Berlusconi e poi da Renzi, per il no al referendum popolare confermativo, restano testi vari proposti nelle tre Bicamerali per le riforme, affaccendate a suo tempo sulla Costituzione.
La prima, Bicamerale Bozzi, operò dal 1983 al 1985, la seconda, la De Mita-Iotti, dal 1993 al 1994 (e ne fui membro attivo), la terza, la D’Alema, dal 1997 (compartecipai ai successivi lavori parlamentari).
Io stesso presentai alla Camera, in quegli anni, un testo di riforma costituzionale. Il titolo era “Norme per la costituzione di uno Stato federale", una proposta provocatoria - rimasta purtroppo solo negli atti parlamentari - per una nuova Costituzione. La presentai - a nome dell'Union Valdôtaine - dapprima nell'ottobre del lontano 1991 e poi nelle successive tre Legislature. Fu quella riforma di stampo federalista un unicum, nel senso che, nel deserto del federalismo italiano, che è fatto di piccole organizzazioni autoreferenziali e immobili con peso politico esprimibile in grammi, quella almeno fu un atto forte e significativo di tentativo infruttuoso di svolta radicale della Repubblica.
Ora da Giorgia Meloni è stata annunciata, su iniziativa diretta della Presidenza del Consiglio, un disegno di legge sul premierato con elezione popolare, dunque una svolta presidenzialista. Non è la prima volta che avviene m, ma questa volta Il centrodestra, con qualche appoggio ulteriore, ha i numeri per far passare in fretta la modifica. Tant’è che la stessa Meloni presenterà un testo alle opposizioni già la settimana prossima e c’è chi sostiene che lo faccia per distogliere l’attenzione dai gravi problemi economici irrisolti.
Bisogna leggerlo e studiarlo questo testo. Ma già sul tema, due anni fa, scrisse il costituzionalista Michele Ainis un articolo riassuntivo di una vecchia storia: ”Adesso è riemerso, ma non è la prima volta. Nel 1947 si schierò per il modello americano Piero Calamandrei, costituente fra i più illustri. Furono presidenzialisti Salvemini a sinistra, Pacciardi e Maranini a destra. Finché nel 1987, al congresso di Rimini, si dichiarò presidenzialista un partito di governo: quello socialista, guidato da Bettino Craxi. Dopo d'allora quintali di carte e commissioni, che raggiunsero l'apice un mercoledì di giugno del 1997, quando la Bicamerale presieduta da D'Alema mandò al ballottaggio l'elezione diretta del Presidente della Repubblica o quella del presidente del Consiglio. Vinse la prima, e tutti furono felici, tanto un sistema vale l'altro. Ma il presidenzialismo all'italiana ha collezionato innumerevoli varianti, come il virus del covid-19: per esempio lo pseudo-presidenzialismo della riforma costituzionale approvata dalle Camere nel 2005, ai tempi del terzo governo Berlusconi, e respinta poi dagli elettori, con il referendum dell'anno successivo. O l'elezione diretta del capo dello Stato, proposta da Fratelli d'Italia all'avvio della legislatura in corso, e accompagnata (nel 2019) da una raccolta di firme nelle piazze. Una riforma superpresidenziale, giacché in questo caso il Presidente della Repubblica presiede anche il Consiglio dei ministri: due presidenti in un corpo solo.
E tuttavia non è una coincidenza se adesso FdI viaggia in testa nei sondaggi d'opinione. Evidentemente quel partito ha orecchie più sensibili, sa ascoltare gli umori del Paese. Che in questa stagione d'emergenza reclamano un capo, un condottiero cui affidarsi. Comprensibile, anche se allarmante: "la democrazia è assenza di capi", diceva Kelsen, e prima di lui Platone. Ma dopotutto non è il caso di chiamare i partigiani. Vero, noi italiani spesso ci votiamo a un salvatore della Patria; però soltanto per il gusto d'impiccarlo a testa in giù. Accadde a Mussolini, e dopo di lui - metaforicamente - a molti leader politici di cui per un momento ci infatuammo: Craxi, Monti, Renzi, lo stesso Presidente Napolitano. E' il nostro vaccino nazionale contro il virus della capocrazia. Gli italiani sono per la tirannide, ma temperata dal tirannicidio”.
Riflessioni che fanno capire il cammino della Meloni e la sua fretta.
Intanto, in questo stesso momento, le Autonomie speciali si stanno confrontando su spinta del sudtirolese Arno Kompatscher su di una proposta comune di rilancio degli Statuto Speciali in parallelo con il varo dell’autonomie differenziata per le Regioni Ordinarie.
Certo il SüdTirol è la sola Speciale a godere della garanzia internazionale e poche ore fa il Cancelliere austriaco è stato a Palazzo Chigi proprio con una delegazione sudtirolese, quanto mai era avvenuto dal dopoguerra! Vedremo se il tentativo di fronte comune, che finirebbe per incrociare il presidenzialismo, riuscirà.
Tema complesso ma essenziale per gli Statuti speciali è quello di prevedere l'intesa per la loro modifica. Senza pariteticità ogni riforma complessiva pagherebbe la mancanza di una logica pattizia e il Parlamento potrebbe stravolgere qualunque proposta proveniente dalle Autonomie speciali.
Una riforma potrebbe prevedere questo meccanismo di tutela per il futuro, trovando intanto accordi politici per farla avanzare senza i rischi appena evocati.
Scenario in verità complesso, in cui sarà interessante vedere amici e nemici.

Spunta il costituzionalista

Mi diverte molto il fatto che nelle discussioni politiche spunti, ogni tanto, la figura del costituzionalista, così come si definisce uno studioso e insegnante di diritto costituzionale. Su che cosa sia questa sua materia ammiro la prudenza iniziale della Treccani: “In linea di massima, per diritto costituzionale si intende lo studio giuridico della costituzione, al di là di qualunque significato si intenda attribuire a tale termine. In un’accezione ampia, il diritto costituzionale può infatti farsi risalire all’antica Grecia, nel momento in cui alcuni pensatori, come Aristotele, hanno cominciato a riflettere sull’idea di costituzione, appunto, e sull’assetto giuridico della consociazione politica. In una accezione più stretta, invece, il diritto costituzionale nasce con il costituzionalismo moderno, in corrispondenza all’adozione di documenti costituzionali scritti e solenni, riguardanti l’organizzazione e i limiti del potere statale”.
Per capirci: lo stesso Statuto speciale della Valle d’Aosta è oggetto di studio e di riflessione di questa nobile materia, che ho praticato da deputato nel lavoro parlamentare per molti anni come testimoniano i resoconti e non solo in termini teorici ma scrivendo norme. È questo segno tangibile e non solo astratto come si evince da alcuni cambiamenti operati lungo una dozzina di anni, con procedura costituzionale, al già citato Statuto valdostano. Eppure non sono costituzionalista, ma sono solo un praticone che studia e si informa, sapendo che alla fine i principi vanno - come si dice oggi - messi a terra.
Proprio per questo mi fa sorridere di tanto in tanto che sulla politica valdostana aleggi questa idea che chi si occupa di riforme che incidano sul nostro ordinamento debba essere sempre sottoposto al vaglio spesso severo del costituzionalista di turno, come se - al di là del dettaglio tecnico - assumesse in sé l’immagine algida del super partes che, con la sua scienza, indica strade giuste o bocci proposte che non gli piacciono. Una specie di Catone il Censore al di sopra di tutti.
I costituzionalisti sono come tutti gli altri esseri umani agiscono sulla base di proprie legittime posizioni politiche, che plasmano le loro scelte su singoli argomenti, non trattandosi nel caso di una scienza esatta e cioè di scienza in grado di rispondere a domande nel proprio ambito con risultati esprimibili in modo oggettivo.
Per cui lo stesso argomento di discussione può essere visto in modo diametralmente opposto e dunque chi annuncia le sue posizioni come verità assolute, cui i poveri politici dovrebbero abbeverarsi, lo fa sulla base di proprie convinzioni spesso ideologiche che non possono però essere spacciate come il Verbo assoluto. Poi, naturalmente, ci si può presentare sui diversi punti in modo più o meno partigiano, ma non fingendo di non indossare una casacca.
Intendiamoci bene: nessuno svilisce mestieri altrui, ma segnala solo che non ci sono distinzioni rozze fra ignoranza e sapere, essendoci sempre su argomenti giuridici visioni legittimamente diverse e derivanti - lo ripeto - dai propri convincimenti qqe tutto ciò con il massimo rispetto per gli studi fatti, i lavori e le pubblicazioni compiuti con la fatica delle studioso.
Lo scrivo perché ho l’impressione che sul tavolo arriveranno a Roma come ad Aosta temi importanti di possibili riforme costituzionali più o meno grandi su cui si dovranno aprire dibattiti seri e argomentati. E non basterà per gli uni o per gli altri usare la formula risolutrice e quasi magica del “lo dice il costituzionalista” con aurea di rispetto quasi mistica. Il quale per altro, per essere più efficace quando lo ritenga, legittimamente può scegliere di entrare nell’agone politico, ma mai fingendo di non farne parte e di mostrare stupore se qualcuno osserva che dietro ogni autorevole parere può esserci il suo esatto contrario. Sempre pareri ”pro veritate”…

Fascino felino

Mi manca un gatto. A dir la verità mi manca anche un cane. Ne ho sempre avuti, ma mia moglie è allergica al loro pelo, roba seria con conseguenze pericolose.
Oggi, se potessi scegliere, prenderei un gatto, perché il cane - con il suo amore infinito - sarebbe troppo difficile da conciliare con l’attuale tran tran della mia vita.
Non potendo avere un micio mi godo, quando capita, quelli altrui e manifesto tutta la mia simpatia a quelli che incontro con l’impressione che riconoscano al volo un gattofilo. Gli ultimi della serie sono stati gatti egiziani, spesso in mezzo alle rovine, magri e scattanti, a differenza dei cani stesi per terra, come morti.
Per questo ho letto con interesse un articolo di Michael Marshall sul New Scientist, giornale del Regno Unito, che propone alcune novità sul piccolo felino.
Scrive l’autore, autodenunciatosi sin da subito come amante dei gatti, con un dubbio che tutti abbiamo: “La maggior parte dei padroni di gatti (sempre che “padroni” sia la parola giusta) ha il sospetto che, se non fossimo più capaci di aprire le loro scatolette di carne o le buste di croccantini, ci abbandonerebbero”.
Più avanti un poco di storia: “I felini sembrano aver cominciato il percorso verso l’addomesticamento circa diecimila anni fa nel Mediterraneo orientale, il cosiddetto Vicino oriente. Tra le testimonianze archeologiche ce n’è una segnalata in un rapporto del 2004 secondo cui sull’isola di Cipro, in una tomba risalente a 9.500 anni fa, un gatto era stato sepolto insieme a una persona. (…) I gatti hanno cominciato a frequentare gli umani nel periodo in cui gli abitanti del Mediterraneo orientale hanno cominciato a coltivare, invece di cacciare e raccogliere. Il cambiamento nello stile di vita fece accumulare riserve di cereali come il grano. “E queste attirarono roditori e altri parassiti”, dice Danijela Popović dell’università di Varsavia, in Polonia. “L’aumento di roditori a sua volta attirò i gatti”. In altre parole, non c’è motivo di supporre che gli essere umani li abbiano intenzionalmente addomesticati. “I gatti scoprirono che si stava bene vicino alle persone perché lì c’era da mangiare”, dice Popović. “E le persone scoprirono che gli piaceva avere gatti intorno”.
Semmai, i gatti si addomesticarono da soli”.
Più avanti vien da sorridere: “Vi siete mai chiesti se siete i soli a parlare con il gatto con la stessa vocina acuta e gioiosa che usate per rivolgervi ai bambini piccoli? I padroni di cani parlano così con i loro animali domestici. In uno studio pubblicato nel 2022 Charlotte de Mouzon, dell’università di Parigi Nanterre, e i suoi colleghi hanno dimostrato che anche i proprietari di gatti lo fanno: “Abbiamo registrato gli esseri umani che parlavano con i loro gatti e lo facevano tutti” “.
Poi Marshall torna alla prima questione posta “Il legame con i gatti è un’illusione? Forse no. Uno studio approfondito del loro comportamento rivela che sono più in sintonia con noi di quanto pensiamo, e non solo per interesse. “Ci sono molti stereotipi a proposito del comportamento dei gatti”, afferma Kristyn Vitale dello Unity college nel Maine, negli Stati Uniti. “Ma molte ipotesi non sono confermate dalla scienza”. I gatti, per esempio, sanno quando stiamo parlando con loro. In uno studio dell’ottobre 2022 de Mouzon e i suoi colleghi hanno registrato i proprietari che parlavano ai gatti con una vocina acuta e poi in tono normale. Poi hanno registrato degli estranei che dicevano le stesse cose. Quando i gatti sentivano parlare i loro padroni, cambiavano comportamento: si guardavano intorno, si fermavano o muovevano le orecchie e la coda. Non reagivano nello stesso modo quando a parlare erano degli estranei. “Non considerano uguali tutti gli esseri umani”, dice de Mouzon. “Provano una sensazione speciale quando il padrone si rivolge a loro”.
Di recente un gruppo di ricercatori giapponesi ha fatto una serie di scoperte sorprendenti. Nel 2019, da una ricerca condotta da Atsuko Saito dell’università di Tokyo, in Giappone, è emerso che i gatti domestici riconoscono i loro nomi. Le orecchie e le code si muovevano in modo diverso quando sentivano le registrazioni dei padroni che pronunciavano il loro nome rispetto ad altre parole con un suono simile. Ma è probabile che il nostro animale domestico continuerà a ignorarci quando lo chiamiamo. “I gatti non si sono evoluti per rispondere ai segnali umani”, dice Saito. “Comunicano con le persone solo quando vogliono” “.
Fantastica la loro indifferenza quando si astraggono!
Ma in fondo ha ragione l’etologo Desmond Morris: “ll gatto, compagno pigro e sfuggente, elettrico e carezzevole è una fonte inesauribile di enigmi, delizie e tormenti”.

Parlare d’Europa e di Ucraina

Se chiedi a chi conosci che cosa venga celebrato il 9 di maggio nessuno ci azzecca. E questo significa in modo plastico quanta poca affezione ancora ci sia in termini popolari verso l’Europa, sfrondata la questione dalla retorica europeista.
Mi spiace che sia così e il fatto stesso che la festa non sia un…festivo la dice lunga, anche se molte festività che coincidono con un giorno di vacanza sono lo stesso cadute nell’oblio del loro significato.
Il 9 maggio è la Giornata dell'Europa, che nelle intenzioni dovrebbe celebrare la pace e l'unità in Europa. La data segna l'anniversario della storica dichiarazione con cui l'allora ministro degli Esteri francese Robert Schuman espose l'idea di una nuova forma di collaborazione politica in Europa, che avrebbe reso impensabile la guerra tra le nazioni europee. La proposta di Schuman è stata considerata e scelta come l'atto di nascita di quella che oggi è l'Unione europea.
Nella dichiarazione, assai pratica nel primo approccio post bellico per regolare i rapporti economici fra Francia e Germania in tema di carbone e acciaio, dice in un passaggio una sacrosanta e sintetica verità: “L'Europa non potrà farsi in una sola volta, né sarà costruita tutta insieme; essa sorgerà da realizzazioni concrete che creino anzitutto una solidarietà di fatto”. Così, fra tanti alto e bassi, è stato e anche per la piccola Valle d’Aosta questo processo ha significato capire quanto gli autori della Dichiarazione di Chivasso, valdostani e valdesi, guardassero con occhio profetico al futuro dagli orrori del 1943, quando venne scritta, nel passaggio :”che il federalismo è il quadro più adatto a fornire le garanzie di questo diritto individuale e collettivo e rappresenta la soluzione dei problemi delle piccole nazionalità e minori gruppi etnici, e la definitiva liquidazione del fenomeno storico degli irredentismi, garantendo nel futuro assetto europeo l'avvento di una pace stabile e duratura”. Il federalismo non c’è ancora in Europa, ma i passi in avanti da quando venne scritta questa fase di sono stati e sono stato da gigante nel solco della sperata integrazione europea. Un processo in fieri, pieno di ombre e di problemi, che oggi però si basa su istituzioni salde ed esiste per fortuna una cittadinanza europea, che da sola dimostra i progressi fatti, partendo dalle macerie fisiche e morali della Seconda guerra mondiale.
Ne scrivo oggi, perché oggi la Festa, con qualche giorno di anticipo, la celebreremo ad Aosta al Teatro Splendor con un focus sul percorso europeista di cui parlerò con Gilles Gressani (membro del Consiglio di UniVda, che presiede il Groupe d’études géopolitiques, Geg, dell’Ecole normale supérieure di Parigi e dirige la rivista Le Grand Continent) e Tristan Aureau (consigliere del Presidente del Consiglio europeo).
La scelta di parlare dell’Ucraina non è casuale e passerà attraverso la testimonianza di Luciana Coluccello (inviata di guerra e giornalista freelance) e Ugo Lucio Borga (fotogiornalista freelance), che racconteranno, con immagini e video da loro realizzati, il conflitto che si sta combattendo alle porte dell’Europa.
Ospite d’eccezione dell'iniziativa doveva essere l’Ambasciatore d’Ucraina in Italia, Yaroslav Melnik, che all’ultimo ha dovuto rinunciare e sarà sostituito dal giovane console di Milano Iviv Ivan Franko.
Segno questa presenza della solidarietà valdostana, dimostrata in questo ormai troppo lungo periodo bellico causato dalla invasione russa, sarà la presenza in musica di tre giovani musicisti ucraini che studiano al Conservatoire di Aosta.
L’Unione europea, pur in un contesto in cui non sono mancate contrapposizioni e discussioni, com’è giusto in democrazia, ha scelto di stare al fianco dell’Ucraina e la Festa dell’Europa, dedicata a questo conflitto così tristemente esemplare, non poteva non essere occasione per parlarne.

Mai recidere la memoria

Il clima di scontro nella politica italiana non deve stupire. Capita spesso di citare l’ex Ministro Rino Formica e la sua immagine truculenta della Politica “sangue e merda”.
Si tratta di un’evidente iperbole, ma gli eccessi aiutano a non vivere nel Paese delle Meraviglie. Ci pensavo riguardo alle situazione di continua fibrillazione e di scontro che sembra essere ormai la regola e non l’eccezione.
Leggo - come fotografia più recente - quanto scritto sul Corriere da Paolo Franchi sullo scontro fascismo/antifascismo accentuatosi, come già avvenuto in passato, sotto il 25 aprile, data della Liberazione dal nazi-fascismo e come tale simbolo evidente.
Scrive Franchi: “Nessuno può ragionevolmente sostenere che in Italia o altrove esista un pericolo di ritorno al fascismo per così dire classico, o dell’avvento di un fascismo di tipo nuovo. Ma, allo stesso tempo, nessuno può ragionevolmente negare un’evidenza fino a qualche tempo fa letteralmente impensabile: il fatto cioè che per la prima volta nella storia repubblicana alla guida del governo e (si badi) del partito di maggioranza relativa c’è una giovane donna che, come molti dei suoi, i primi passi in politica li ha mossi nel Movimento sociale”.
Dire pane pane e vino al vino non è facile e Franchi lo fa e dimostra evidente…franchezza: “Pretendere che Giorgia Meloni e FdI plaudano entusiasti alla natura antifascista della Costituzione, vigorosamente (e giustamente) riaffermata da Sergio Mattarella, è un po’ come intimare al tacchino di inneggiare al pranzo di Natale: ma la, anzi, il presidente del Consiglio questo rospo lo ha tutto sommato mandato giù”.
Più difficile farlo per chi è missino di radici più profonde. Franchi più avanti cosi tratteggia il Movimento Sociale a beneficio di chi non ne conosce la storia: “Sin dal congresso di fondazione (Napoli, 1949), dietro lo schermo del «Non rinnegare, non restaurare», in questo partito faticosamente convissero, tra scontri furibondi e fragili compromessi, una «sinistra» socialeggiante che aveva le sue radici nella Rsi, a lungo capeggiata da Giorgio Almirante, e una destra più incline alla manovra politica, in Parlamento e nelle amministrazioni locali. Ma, altrettanto sicuramente, da tutto questo non si può trarre la conclusione che la storia del Msi sia stata quella, o soprattutto quella, di un partito che, «rimasto escluso per ovvie ragioni storiche» dal processo costituente, «si impegnò a traghettare milioni di italiani nella nuova Repubblica parlamentare, dando forma alla destra democratica», come ha scritto Giorgia Meloni nella lettera al Corriere del 25 aprile.
Per restare a tempi non lontanissimi: chiunque abbia vissuto la stagione inaugurata, nel 1969, dalla strage di Piazza Fontana sa che le cose non stanno così. Non deve essere un caso se nel 1949, Pietro Nenni, vecchio e malato, trovò la forza di recarsi per l’ultima volta al Senato, pur di evitare che a presiedere la seduta inaugurale della legislatura fosse il missino Araldo di Crollalanza. E non deve essere un caso neppure se, per «dare forma alla destra democratica», il Msi, un partito che ancora nel 1991 aveva per segretario Pino Rauti, il fondatore di Ordine Nuovo, toccò seppellirlo”.
Insomma, prosegue Franchi: “Per utilizzare un cortese eufemismo, sembra quanto meno un po’ eccessivo sostenere che il Msi abbia svolto sulla destra, a maggior gloria della Repubblica, un ruolo in fondo non troppo dissimile da quello esercitato dalla Dc nei confronti del clericalismo più retrivo e della piccola borghesia più incline a una deriva reazionaria, e dal Pci nei confronti di ampi settori della classe operaia e del partigianato del Nord, convinti che alla Resistenza potesse e dovesse far seguito una spallata rivoluzionaria. Non è solo la storia del Msi a essere diversa. Diversa, molto diversa è la storia di una Repubblica che, caso unico tra gli sconfitti della Guerra mondiale, si fonda su una Carta scritta in quei termini, e non in altri, grazie alle forze che la Resistenza la avevano fatta. È, questa, una considerazione che dovrebbe risultare ovvia a dir poco”.
Possibile che su questo non ci sia una comune coscienza? Franco lamenta troppi silenzi sul punto da parte anche di chi è erede politico di certi valori ed è bene che anche il mondo autonomista su questo non si smarrisca e non si tratta di vedere il mondo dallo specchietto retrovisore ma di evitare di recidere la memoria.

Delicato problema fra diritto e coscienza

I diritti sono importanti e declinabili in un insieme molto vasto, che chiamiamo “umani” e possono essere classificati in diritti civili, politici e sociali. Bella e sintetica anche la definizione “diritti fondamentali”. La Costituzione italiana - per quanto senta il peso dell’età - offre una buona esposizione dei diritti e ancor meglio, perché più recente, è quanto contenuto nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea.
Lo dico perché questi principi sono importanti e servono a indicare la strada per qualunque cittadino in un mondo nel quale i continui sviluppi ci pongono di fronte a novità da capire e da regolamentare.
Cambio scenario con apparente discontinuità. Ci sono argomenti di fronte ai quali molti politici traccheggiano nella logica di non scontentare nessuno. Per mia fortuna non fa parte del mio carattere un atteggiamento di questo genere. Piuttosto di dire e non dire, cercando di sfuggire a un sì o ad un no, preferisco esprimermi in maniera chiara, riservandomi semmai nel tempo di far evolvere la mia opinione.
Diceva lo scrittore inglese James Russell Lowell che “Solo i morti e gli stupidi non cambiano mai opinione”.
Vengo al punto, evitando di portarvi troppo in giro.
Mi riferisco ad una novità di questi anni, che da rarità è diventata ordinarietà ed la questione della maternità surrogata.
Treccani così spiega e mi scuso con chi ne abbia già perfetta consapevolezza: “L’espressione “maternità surrogata” indica la situazione nella quale una donna si assume l’obbligo di portare a termine una gravidanza per conto di una coppia sterile, alla quale s’impegna poi a consegnare il nascituro. In realtà, la figura della madre su commissione può dar corpo a molteplici fattispecie, a seconda del tipo di partecipazione della donna esterna alla coppia: costei può provvedere solo alla gestazione, o anche al concepimento dell’embrione, con l’apporto o meno del proprio materiale genetico; senza contare l’eventuale intervento di un donatore di gameti maschili, che contribuisca geneticamente alla formazione dell’embrione”.
Poi si entra ancor di più nel merito: “Ad accomunare tutte queste ipotesi è la radicale scissione tra maternità sociale, biologica e genetica, che mette in crisi il tradizionale principio secondo cui “madre” del “nascituro” è colei che lo ha “partorito”. Si tratta di fenomeno affatto nuovo, ma che lo sviluppo della scienza e della tecnica ha reso più complesso e potenzialmente diffuso”.
Segue una ricostruzione degli aspetti giuridici, compresi gli aspetti penali e civilistici su cui non mi soffermo, esprimendo solo una mia opinione generale.
Segnalo solo che i divieti della legislazione italiana sono facilmente aggirabili, come ben si sa, andando in Paesi dove questa pratica è consentita, creando poi problemi di registrazione all’anagrafe in Italia dei bambini nati con queste pratiche.
Confesso molti dubbi e non in una logica oscurantista o antiscientifica e comprendo il desiderio delle coppie (eterosessuali o omosessuali non è per me un problema) di trovare una soluzione.
Ma credo che l’utero in affitto nelle diverse tipologie possibili non sia una scelta comprensibile. Capisco come questo derivi in parte dalle oggettive difficoltà che l’Italia frappone alle adozioni, che restano per me la strada maestra in un mondo nel quale troppi bambini sono senza genitori, spesso in condizioni tragiche in orfanotrofi.
Così la penso: capisco che in molti parlano della generosità di un gesto di chi offre il proprio corpo per una nascita altrui, ma - almeno per ora - mi pare più una pratica mercantile. Chiarire bene questa questione potrebbe consentirmi di ragionarci, ma solo in una logica di contemperamento - che mi pare per ora non ci sia - fra diritto e doveri. E cioè riguarda le promettenti e talora inquietanti prospettive delle materie vaste che riguardano la bioetica.

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