Bambini su ordinazione

Fatevi un giro sui diversi siti che si occupano della maternità surrogata nel mondo o, come più esplicitamente espresso da alcuni, con la dizione da brivido “utero in affitto” e si capisce di più. Roba che non solo impressiona, smontando tutta la retorica sulla generosità delle operazioni di nascite su ordinazione “per affetto”, ma dimostra la tragicità di un mercato, in più solo chi è abbiente.
Leggevo, giorni fa, sul Foglio un’intervista di
Annalisa Chirico
ad Anna Finocchiaro, presidente di Italiadecide, già ministro delle Pari opportunità e dei Rapporti con il Parlamento, che conobbi bene e la cui serietà e l’appartenenza all’area progressista sono fuori discussione.
Dice Finocchiaro: ”Già alcuni anni fa proposi una messa al bando politica di questa pratica, e non certo l’introduzione del cosiddetto reato universale, proposta tanto suggestiva quanto inutile. La mia contrarietà non si fonda solo sull’inaccettabilità dello sfruttamento del corpo di una donna, poiché non si può ignorare che esistano donne che, fuori da condizionamenti economici, sessisti o familiari, decidano liberamente di portare avanti una gravidanza per altri. Io lo trovo inconcepibile, ma accade e avviene sulla base di relazioni personali e fuori dal mercato. La mia ostilità si fonda sul fatto che assai più spesso la maternità surrogata è finalizzata alla produzione di corpi destinati allo scambio commerciale: bambini prodotti da madri surrogate, su commissione, per essere destinati al mercato dei richiedenti, che pagano per questo”.
Chiede poi la giornalista: ”La destra è contro, la sinistra non si sa bene”.
Risponde Finocchiaro: ”Non è proprio così. Nella sinistra è in corso un dibattito aperto. La segretaria Schlein ha espresso la propria opinione personale sul tema ma altre e altri nel partito la pensano diversamente. Preferisco una discussione aperta rispetto a una ipocrita o opportunista. Senza un confronto, non c’è una presa di posizione politica e questa battaglia non può essere oggetto di propaganda ed essere lasciata alla destra”.
E aggiunge: ”Politicamente, come premessa, auspicherei una condanna unanime contro il mercato costituito dalla produzione di esseri umani destinati allo scambio economico, perché mi pare questo il punto della questione. Oggi il mercato esiste in alcuni paesi, dall’Ucraina ad alcuni Stati americani passando per la Grecia: ci saranno pure dei casi di donazione generosa, puramente altruistica, ma il più delle volte si tratta di uno scambio su commissione. Ci sono agenzie, avvocati, medici, assicuratori, pubblicitari… diciamo le cose come stanno”.
La riflessione finale è ancora più profonda: “Oggi non riusciamo più a porci il senso del limite. Lo disconosciamo, lo neghiamo. Io domando: in una società altamente innovativa, dove la tecnologia consente ogni giorno di superare traguardi un tempo giudicati inarrivabili, non è il caso di ripensarlo, e ritrovarlo, un nuovo senso del limite? Guai a fermare la scienza, la ricerca è fondamentale, lei pensi ai progressi nel campo medico, alla rapidità delle connessioni, alle frontiere dell’intelligenza artificiale. Eppure il nostro senso del limite ha bisogno di essere aggiornato in una realtà enormemente mutata. Ci sentiamo quasi travolti dalla marea di innovazioni ma la nostra capacità di adattamento non può prescindere dall’esigenza di preservare l’essenza dell’umano”.
Ha detto il cardinal Matteo Zuppi, vescovo di Bologna e presidente della Cei e serve di certo al dibattito, anche per chi è laico: ”Sull'utero mi dispiace, io non penso che essere contrari all'utero in affitto sia medievale. E non penso che sia modernità far fare il figlio a una donna e poi glielo compri con i soldi. Non trovo niente di moderno in questo. Nella sostanza vuol dire l'arroganza di uno che ha i soldi e compra qualcosa".

Un addio a Berlusconi

Onore delle armi a Silvio Berlusconi, che ha combattuto le malattie con grande coraggio e non ha mai voluto piegarsi all’ineluttabile invecchiamento.
Ne sentiremo di tutti i colori nelle prossime ore: dall’esaltazione delle gesta del Cavaliere a molte cattiverie in un’epoca in cui neppure di fronte alla morte ci si risparmia.
Ho conosciuto Berlusconi sempre in occasioni ufficiali sin dalla sua discesa in campo, che scosse la politica e lo portò a Palazzo Chigi in un lampo. I suoi Governi, che ho conosciuto da deputato, si comportarono sempre in modo istituzionale con noi valdostani e bisogna dare atto alla scelta di Ministri, in posti chiave, anche di elevato livello.
Così come, per chi come me resta un giornalista radiotelevisivo in quella Rai che si trovò a fronteggiare la Fininvest invadente, bisogna riconoscere il suo fiuto imprenditoriale (certo assai appoggiato da certa politica), spezzando un monopolio pubblico fuori dal tempo.
Berlusconi, uomo di studi e di cultura, aveva però quel tratto milanese con eccessi da bauscia e qualche gaffes di troppo nei rapporti internazionali. Certo in molti passaggi è stato Cicero pro domo sua, ma certo una serie di processi subiti hanno dimostrato un certo accanimento. Non era - intendiamoci un’anima candida- e il successo negli affari e in politica dimostrava il suo pelo sullo stomaco e una vera e propria spregiudicatezza. Per questo, in certi passaggi, criticai certe aperture del mondo autonomista.
Ma per il Centrodestra, oggi vincente, ha fatto molto e devono essergli grati. Fu lui a sdoganare la Lega in modo decisivo e a spingerla verso lidi nazionalisti e soprattutto diede spazio - e oggi ancor di più - alla destra nostalgica, che ha ancora virus neofascisti nel suo seno.
Sarà la Storia a giudicarlo per i tratti ancora indeterminati e anche per quello stile, spesso goliardico, che ne ha fatto talora un barzellettiere inopportuno e con quel lato festivo - le cene eleganti - che hanno spesso ridicolizzato l’Italia, anche se ho sempre pensato che in larga parte fossero fatti suoi.
Pensava di campare chissà quanto e ha lottato con il passare degli anni, riuscendo sempre a scamparla. Questa volta non ce l’ha fatta ed è giusto presentare le condoglianze a chi in Valle d’Aosta scelse, chi prima e chi poi, il berlusconismo, fenomeno da libri di sociologia.
Molto senza di lui cambierà e vedremo come.

I “miei” Papi

Penso ogni tanto ai “miei” Papi, nel senso dei Pontefici che mi hanno accompagnato - come eminenti personalità sul palcoscenico pubblico - nel corso della mia vita.
Userei, come strumento, l'elenco dei Papi dal 1958 ad oggi con l'età a cui sono assurti al soglio pontificio e quella della loro morte.
Comincerei con Papa Giovanni XXIII, proclamato Santo: divenne Papa il 28 ottobre 1958 all'età di 76 anni e morì il 3 giugno 1963 all'età di 81 anni.
Non ero ancora nato, quando succedette a Pio XII, ma il “Papa buono” risulta nel ricordo, specie per via della nonna materna assai pia, per quel suo papato così apprezzato. Con quel suo parlare semplice ben visibile nel celebre discorso in piazza San Pietro nel 1962: “Tornando a casa, troverete i bambini; date una carezza ai vostri bambini e dite: “Questa è la carezza del Papa”. Troverete qualche lacrima da asciugare. Fate qualcosa, dite una parola buona. Il Papa è con noi specialmente nelle ore della tristezza e dell'amarezza”.
Seguì Papa Paolo VI, diventato Papa il 21 giugno 1963 all'età di 65 anni e morto il 6 agosto 1978 all'età di 80 anni. Ha scritto Gianandrea Gavazzeni: Figura drammatica. Papa drammatico. Enigmatico, inquietante, importante. Inquietante per il suo complesso ritratto spirituale, come traspariva e come mi arrivava da certi suoi atteggiamenti, dal suo modo di parlare, dalle espressioni del suo viso sofferente”.
Nella mia estate dopo la Maturità, ricordo l’arrivo Papa Giovanni Paolo I: eletto Papa il 26 agosto 1978 all'età di 65 anni, ma morì improvvisamente il 28 settembre 1978, solo 33 giorni dopo la sua elezione. Sarebbe stato nel suo apostolato un Pontefice montanaro, proveniente dall’Agordino, una delle zone della minoranza linguistica ladina. Sulla sua morte inutili misteri e pettegolezzi.
Arriva poi - e divenne Santo con rapidità - Papa Giovanni Paolo II, il Pontefice polacco diventato Papa il 16 ottobre 1978 all'età di 58 anni e che morì il 2 aprile 2005 all'età di 84 anni. Venne in Valle per una visita pastorale nel Settembre del 1986 e seguii quei giorni come cronista Rai e poi fui fra le autorità che lo accolsero per dieci volte in vacanza. Il giudizio storico sul Papato di Karol Wojtyla spetta certo a persone ben più esperte, però a me, oltre all'umanità ed al carisma, colpi la straordinaria accuratezza con cui veniva costruiti i suoi interventi pubblici: nessuna personalità in visita nella nostra Regione autonoma ha mai approfondito con tanto acume nei discorsi la realtà valdostana, dimostrando una grande affezione verso la nostra comunità e le nostre montagne.
Gli succedette Papa Benedetto XVI, diventato Papa il 19 aprile 2005 all'età di 78 anni, che ci lasciò il 31 dicembre del 2022 a 95 anni. Anche lui venne due volte in vacanze in Valle e la prima volta ero Presidente della Regione. Lo trovai gentile e sorridente, assai riservato. Chiese di mettere nello chalet di Les Combes un piccolo pianoforte per suonare al cospetto delle montagne ed essendo bavarese le Alpi le ben conosceva.
Infine Papa Francesco, Papa dal 13 marzo 2013 all'età di 76 anni ed è ancora in carica al momento. È un Pontefice interessante e profondo, anche se - mi si permetta la critica - mi sfugge una certa ambiguità sulla guerra in corso in Ucraina.
Vale per quasi tutti la considerazione, drammatica con Papà Wojtyla, dell’invecchiamento come una delle chiavi di lettura di questi Papi contemporanei. Una specie di luce che illumina il soglio di San Pietro di fronte al problema serio della vecchiaia e dell’invecchiamento, specie in società occidentali nelle quali la vita, con pregi e difetti, si allunga sempre di più.

In piedi o seduto?

Riderne se ne può ridere e lo premetto, visto il tema - come dire? - quantomeno inconsueto, ma nient’affatto estraneo alle orecchie maschili. Mi spiego, prima di citare un articolato reportage di Célia Laborie
sul tema apparso su Le Monde. Il tema per niente aulico è: gli uomini possono continuare a fare la pipì in piedi o devo sedersi sul water, come stavolta suggeriscono le mogli?
L’articolo racconta di un bar di Montreuil dove una scritta nel bagno degli uomini invita a far la pipì seduti
Spiega la giornalista: “Si, en France, ce genre d’inscription peut surprendre, en Allemagne il n’est pas rare de croiser des écriteaux demandant aux hommes de poser leur séant sur la cuvette des toilettes des aéroports, des musées ou des restaurants. Là-bas, il existe même un mot pour désigner quelqu’un qui s’assoit pour soulager sa vessie : Sitzpinkler (« pisseur assis »). Une pratique qui n’a pas cours uniquement au pays de la Fête de la bière. Selon un sondage Panasonic mené en 2020 sur un échantillon réduit (155 répondants), 70 % des hommes japonais affirment uriner assis à leur domicile, contre 51 % cinq ans auparavant. La raison invoquée par ceux qui préfèrent poser leur popotin pour faire pipi est presque toujours la même : la propreté. D’après une étude menée par le chercheur en ingénierie mécanique Tadd Truscott, lorsqu’un homme fait ses besoins debout, les éclaboussures, que les Anglo-Saxons appellent retrosplash, se propagent jusqu’à 3 mètres à la ronde – une distance d’autant plus importante à connaître pour ceux dont la brosse à dents ou la serviette de toilette est installée dans la même pièce que les cabinets”.
La spiegazione è piuttosto ruvida e evoca in più discussioni familiari sui rischi di presenze sgradite sulla tavoletta del wc…
Ancora l’articolo: “Pour garantir la propreté des sanitaires, faut-il imposer à tous le pipi assis ? Ou s’agirait-il d’une énième croisade wokiste contre les libertés masculines ? En 2003 déjà, dans son essai Fausse route (Odile Jacob), consacré à la critique d’un féminisme censé être « obsédé par le procès du sexe masculin », Elisabeth Badinter fustige les mères suédoises qui apprennent aux petits garçons à prendre place sur la lunette des W.-C.. Quand, sur TikTok, Doctor JFK, un étudiant en pharmacie, publie une vidéo pour expliquer que « faire pipi assis permet d’augmenter ton débit urinaire maximal », les internautes alarmés se précipitent pour commenter : « Le mec est fait pour uriner debout ! Regarde les chiens : les mâles et les femelles ne pissent pas non plus de la même façon ! »”.
Non mi paiono spiegazioni nobilissime.
Ma più avanti c’è un passaggio etnografico: “D’après Ben Garrod, chercheur en biologie cité dans le Guardian, le fait d’uriner debout est la pratique la plus courante parmi les nombreuses tribus et communautés que ce Britannique a pu côtoyer à travers le monde. Est-ce là un atout de l’évolution conquis de haute lutte par l’homme, seul mammifère bipède de la planète ? « Je suppose que, si je me lève pendant que je fais pipi, j’ai plus de chances de voir un tigre à dents de sabre courir vers moi (…). Cela pourrait être un ajout au parcours évolutif, mais cela n’a pas conduit à notre évolution en tant qu’espèce », conclut l’enseignant”.
Mah!
C’è chi nel mondo femminile - osserva la Laborie - vorrebbe fare una cosa diversa: “En parallèle de ce débat sur les habitudes masculines, certaines femmes revendiquent désormais le fait de pouvoir faire leurs besoins jambes tendues, pour des raisons pratiques ou symboliques. Des entreprises commercialisent même des « pisse-debout » jetables ou réutilisables pour leur permettre de se soulager plus facilement dans la nature, ou pour éviter les files d’attente à rallonge dans les festivals”.
Insomma: il dibattito - che sia preso o no sul serio - è aperto.

Edicole e librerie in crisi

Le edicole mi sono sempre piaciute. Quando ero pendolare ferroviario da studente, alla stazione del mio paese - Verrès, nella bassa Valle d’Aosta - c’era una bella edicola che stuzzicava la mia curiosità sin da ragazzo. Idem ad Aosta e poi ad Ivrea, destinazioni susseguitesi nel mio pendolarismo, dove trovavo pane per i miei denti, quando era tutta carta e giornali e riviste erano numerosi.
Anche nei primi passi da giornalista e poi da politico tutto era ancora cartaceo e faceva piacere, in parallelo con librerie e libri che sono sorelle maggiori, abbeverarsi nelle notizie e negli approfondimenti per far funzionare il cervello. Interessante quel che osservava Hermann Hesse: “Non dobbiamo leggere per dimenticare noi stessi e la nostra vita quotidiana, ma al contrario, per impossessarci nuovamente, con mano ferma, con maggiore consapevolezza e maturità, della nostra vita”.
Scrivo anzitutto delle edicole, perché nei giorni scorsi - già chiusa da anni l’edicola dentro la stazione ferroviaria di Aosta - è stata letteralmente rimosso quello chalet che di fronte alla stessa stazione fungeva da tantissimo tempo da edicola. Una manifestazione fisica della fine di un’epoca.
Poche settimane fa leggevo su Agi: “L'emorragia delle edicole rallenta, -3,5% lo scorso anno contro il meno 6,3% dell'anno precedente, grazie a misure di sostegno venute dal governo, ma il settore sconta ancora un gap forte, tanto che nel 25% dei Comuni italiani neppure una è in attività, aperta al pubblico. Un grave danno sociale che mette in discussione il ruolo di canale di informazione che esse svolgono in una comunità”.
E ancora: “Emorragia effettivamente rallentata, se si pensa al -13,3% del 2018-2019, con la chiusura di ben 2.027 punti vendita, rallentata grazie anche alle misure di sostegno al settore. Quasi la metà delle edicole svolge ulteriori attività rispetto alla classica vendita di quotidiani e periodici che resta comunque prevalente”.
Il rallentamento è dovuto al fatto che le chiusure sono già state tantissime e basta che ognuno pensi alla geografia delle “sue” edicole. Vero è che si ampliano i prodotti in vendita, ma una cartina di tornasole resta la crisi dei quotidiani. Scriveva giorni fa Vanni Petrelli su il sito il millimetro: “Il boom di internet e dei social, la fuga degli inserzionisti, i giochi politici e di potere e la mancanza di innovazione. Un mix devastante per i quotidiani italiani, alle prese con un crollo verticale delle vendite che va avanti oramai da anni, mai bilanciato dalle edizioni digitali. Negli anni ’80, ad esempio, Repubblica era il primo quotidiano, con una tiratura di oltre mezzo milione di copie, seguito dal Corriere della Sera (circa 450mila). Oggi il quotidiano fondato da Scalfari nel 1976 sta affrontando la crisi più grave dalla sua nascita, visto che le copie vendute si attestano intorno alle 120mila. Il Corriere della Sera invece, viaggia di poco sopra le 230mila, con una forbice tra i due quotidiani che però si allarga sempre di più. Nel panorama nazionale sono davvero in pochi a fare eccezione al calo delle vendite: nelle impietose rilevazioni mensili si affaccia ogni tanto un timido segno più accanto ad Avvenire, Fatto Quotidiano, Libero, Italia Oggi, per citarne alcune. Ma nulla in grado di recuperare la valanga di giornali “scomparsi””.
E le librerie? Esiste anche in questo caso una logica causa-effetto. La crisi del mercato del libro in Italia comporta da tempo pesanti ripercussioni anche in termini di occupazione. Molte librerie sono state chiuse nei paesi e anche nelle città, lasciando un vuoto culturale evidente.
Una sorta di tenaglia edicole/librerie che è segno di profondi cambiamenti. Bisogna in parte prenderne atto - pensiamo come parallelo alla morte irreversibile delle cabine telefoniche- ma questo non impedisce per fortuna e per impegno di studiare operazioni intelligenti di salvataggio e di cambiamento.

Elogio della gentilezza

Anni fa avevo scherzato sulla scelta di avere in qualche Comune valdostano un Assessore alla Gentilezza nel solco di una proposta proveniente da un’Associazione culturale eporediese. Ora vedo che, con altro percorso, Courmayeur ha aderito ad un Manifesto su proposta di altro Movimento - che mi pare legato allo yoga e alle sue pratiche - che lo rende “Comune Gentile”.
Vorrei riflettere sul tema, perché resta sempre interessante . Partirei dalla ”Lettera enciclica fratelli tutti di Papa Francesco sulla fraternità e l'amicizia sociale" si legge con chiarezza cristallina: ”La gentilezza è una liberazione dalla crudeltà che a volte penetra le relazioni umane, dall'ansietà che non ci lascia pensare agli altri, dall'urgenza distratta che ignora che anche gli altri hanno diritto a essere felici. Oggi raramente si trovano tempo ed energie disponibili per soffermarsi a trattare bene gli altri, a dire "permesso", "scusa", "grazie". Eppure ogni tanto si presenta il miracolo di una persona gentile, che mette da parte le sue preoccupazioni e le sue urgenze per prestare attenzione, per regalare un sorriso, per dire una parola di stimolo, per rendere possibile uno spazio di ascolto in mezzo a tanta indifferenza. Questo sforzo, vissuto ogni giorno, è capace di creare quella convivenza sana che vince le incomprensioni e previene i conflitti. La pratica della gentilezza non è un particolare secondario né un atteggiamento superficiale o borghese. Dal momento che presuppone stima e rispetto, quando si fa cultura in una società trasforma profondamente lo stile di vita, i rapporti sociali, il modo di dibattere e di confrontare le idee. Facilita la ricerca di consensi e apre strade là dove l'esasperazione distrugge tutti i ponti”.
È significativo giocare ai sinonimi e contrari, perché in fondo alla gentilezza e alle parole in opposizione ognuno forse dà delle diverse sfumature che ampliano lo spettro. Cominciamo dai sinonimi: affabilità, affettuosità, amabilità, carineria, civiltà, cordialità, cortesia, educazione, fair play, garbo, urbanità. Si contrappongono: cafoneria, inciviltà, inurbanità, maleducazione, scortesia, scostumatezza, sgarbataggine, sgarbatezza, villania”.
Sarebbe interessante discutere a fondo sullo scenario che abbiamo di fronte a noi. Credo che ci siano molte ragioni a questo proposito per manifestare un certo pessimismo, che per altro resta un sentimento che non mi appartiene.
Tuttavia la vita quotidiana ci insegna come in effetti esista un’incapacità di avere in certi momenti quell’insieme di sentimenti che fanno da corona alla gentilezza.
Lo si vede, in modo plastico e fattuale, nei dialoghi sui Social, dove il gradiente della violenza si manifesta come una scelta di imbrattare le comunicazioni. Ci sono professionisti del genere per attitudine personale e ci sono i troll, termine che una volta riguardavano solo, protagonisti nelle leggende scandinave, gli abitanti demoniaci di boschi, montagne, luoghi solitari, transitati oggi, nel gergo di Internet, nella definizione di una categoria di utenti di una comunità virtuale, solitamente anonimi, che intralciano il normale svolgimento di una discussione, inviando messaggi provocatori, irritanti o fuori tema.
Questi ultimi - lo vediamo nella vicenda ucraina - sono organizzati con disegni veri e propri di disinformazione e vanno loro dietro pletore di stupidi e di maleducati a peggiorare la situazione.
Sarà forse severo ma realistico Giovanni Soriano, quando scrive: “I social network non istupidiscono la gente, ma consentono di evidenziarne la stupidità con un’efficacia mai raggiunta dagli altri mezzi di comunicazione. Ciò mi pare ormai assodato. Anzi, uno dei più grandi pregi dei social network è proprio quello di consentire all’osservatore distaccato di esaminare senza neppure sporcarsi le mani − tutt’al più turandosi il naso − le formichine umane quando sono intente a esprimere le loro “non idee”, i loro luoghi comuni, i loro sproloqui. Non bisogna tuttavia tacere anche un aspetto un po’ increscioso, per non dire deprimente, di questo enorme carrozzone virtuale, che è la patetica esposizione di sé stessi, mediante parole e immagini, da parte di milioni di morti viventi, i quali, per il fatto di poter rendere pubblica la propria nullità, si illudono di esistere”.
Gentilezza? Poca.

Le parole-slogan

Viviamo in un mondo che tende a semplificare le cose e e la brevità diventa la regola. Da sempre esistono gli slogan che dettano la linea.
La forza dello slogan la si capisce da bambini. Ancora oggi ricordo certi slogan del Carosello della mia infanzia. Tipo: “Brava brava Mariarosa” (lievito Bertolini); “Che c’ho scritto… JoCondor?” (Nutella); “È un’ingiustizia, però!” (Calimero per Ava); “È già mezzogiorno, mezzogiorno di cuoco” (carne Montana).
In politica ho spesso lavorato sugli slogan delle campagne elettorali, cercando la giusta chiave di lettura a favore dell’opinione pubblica.
Ricorda Federico Faloppa su Treccani la storia della parola “slogan”: “Derivato dallo scozzese (slogorne o sloghorne), voce a sua volta derivata dal gaelico sluaghghairm «grido di guerra», composto di sluagh «esercito» e gairm «grido», il termine è entrato in italiano – attraverso l’inglese – solo all’inizio del ventesimo secolo. Prima, come ricorda l’autore della voce Slogan nell’Enciclopedia dell’Italiano Treccani Andrea Viviani, in italiano si usavano sentenza e motto per esprimere lo stesso concetto, ovvero «formula sintetica, espressiva e facile da ricordarsi, usata a fini pubblicitari o di propaganda»”.
Oggi constatiamo come certe parole diventino slogan sinteticissimi e la loro fortuna nasce e tramonta in un battibaleno. Pensiamo al destino di “resilienza”, termine ormai abusato, il cui acme è nell'acronimo "PNRR", che per esteso suona come ”Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza" “.
Simona Cresti sulla "Treccani" cita sul tema della parola-slogan un altro autore: «Stefano Bartezzaghi la definisce "parola-chiave di un'epoca", sottraendola al rapido declino cui sarebbe destinata in quanto semplice "parola alla moda". "Resilienza" assume un valore simbolico forte in un periodo in cui l'accesso interpretativo più frequente alla condizione economica, politica, ecologica mondiale è fornito da un'altra parola, "crisi": lo "spirito di resilienza" rappresenta la capacità di sopravvivere al trauma senza soccombervi e anzi di reagire a esso con spirito di adattamento, ironia ed elasticità mentale”.
Esce dal palcoscenico “resilienza” e arriva, crescendo piano piano in potenza, la parola prezzemolino “sostenibilità” e si sta facendo con una tale prepotenza da diventare invadente e dunque antipatica.
Tutto ormai è “sostenibile”: dalle etichette delle merci più varie sulle scansie dei supermercati ai bilanci aziendali che devono dimostrare nei bilanci di sostenibilità quanto siano bravi nel complessivo rispetto per l’Ambiente.
In realtà “sostenibilità” è una vecchia storia, che gode di una ritrovata giovinezza, perché il concetto cominciò a diffondersi negli anni ‘80 e venne adottato ufficialmente a Stoccolma, in Svezia, nel rapporto “Our Common Future” pubblicato nel 1987 dalla Commissione mondiale per l’ambiente e lo sviluppo, del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente.
La Conferenza di Stoccolma ha attirato l’attenzione internazionale principalmente sulle questioni relative al degrado ambientale e all’inquinamento. L’attuale concetto di sostenibilità cominciò a diffondersi negli anni ‘80 e venne adottato ufficialmente a Stoccolma, in Svezia, nel rapporto “Our Common Future” pubblicato nel 1987 dalla Commissione mondiale per l’ambiente e lo sviluppo, del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente.
Successivamente, nel 1992 alla Conferenza di Rio de Janeiro sull’ambiente e lo sviluppo, detta anche Il Summit della Terra, i capi di Stato mondiali si sono riuniti affrontando per la prima volta a livello globale le emergenti problematiche ambientali. In questa occasione, il concetto di sviluppo sostenibile è stato consolidato come “uno sviluppo in grado di assicurare il soddisfacimento dei bisogni della generazione presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di realizzare i propri”.
Da allora, il termine sostenibilità è stato incorporato e utilizzato dalla politica, dalla finanza, dai mass media e in mille altre attività. Sino all’attuale popolarità, prima che finisca anch’essa nel cassetto polveroso delle parole abusate, quando diventano troppo di moda.

L’accanimento da Cronaca nera

Anche io mi sono occupato, quando ero un giovane giornalista, della cronaca nera, come si chiama in linguaggio giornalistico per un’analogia fra il colore scuro con drammi e tragedie mai a lieto fine.
Tanti incidenti stradali, rari omicidi, qualche rapina, molti soccorsi in montagna, la giudiziaria nei suoi diversi aspetti: si è trattato per me di un’esperienza molto umana, che mi ha confermato nella pratica la banale constatazione di quanto le cattive notizie facciano…notizia. E, nel mio piccolo, ho sempre cercato di raccontare vicende difficili con garbo privo di sensazionalismo per rispetto a quel grumo di dolore e talvolta di follia che avvolge la morte.
Con l’evidente constatazione, anche nella recente vicenda di questo Alessandro Impagnatiello che ha barbaramente ucciso la compagna Giulia Tramontano al settimo mese di gravidanza, che si supera ormai con troppa facilità la soglia che trasforma il racconto in un giornalismo cialtrone e inutilmente curioso e indagatore.
Raccontare le vicende di “nera” ci sta, ma vedere chi ci sguazza fa venire il voltastomaco per la ricerca voyeuristica del particolare macabro o dell’ inutile pettegolezzo. “Chi l’ha visto?” - trasmissione nata con buone intenzioni - è diventato un programma che troppo spesso scava nel sottobosco della “nera”.
Ha scritto anni fa il giornalista e scrittore Michele Serra: «Il sospetto, dunque, è che l'angosciosa percezione di un salto di qualità del male e della violenza sia dovuta soprattutto a una assai più diffusa conoscenza di crimini sempre avvenuti, ma solo oggi diventati materia prima quotidiana di un sistema mediatico cresciuto in maniera esponenziale. Ogni frammento di orrore viene ingigantito, ogni urlo di dolore amplificato, su ogni singola variazione attorno all'orrendo tema della violenza dell'uomo sull'uomo vengono allestiti fluviali dibattiti. L'esile scia di sangue che i cantastorie trascinavano per piazze e villaggi è diventata il mare di sangue che esonda dal video: ma è sempre lo stesso sangue, probabilmente anche la stessa dose pro-capite, solo con un rendimento "narrativo" moltiplicato per mille, per un milione, per un miliardo di volte».
Voler ispezionare gli orrori offre forse un aspetto consolatorio rispetto alla propria vita, ma esiste qualcosa di malato nel vero e proprio accanimento che tracima e trasforma - il delitto di Cogne fece scuola - in discussioni oziose, ricostruzioni avvilenti, mancato rispetto per le vittime. Fu
Intendiamoci: una cronaca asciutta, circostanziata ma rispettosa non è inutile in sé. Lo ricordava ieri sul Corriere Dacia Maraini: ”Perché raccontare le violenze sulle donne, naturalmente in modo non morboso, aiuta a creare coscienza, fa capire quanto sia pericoloso non denunciare, non tenere le distanze da chi si mostra possessivo in maniera maniacale e morbosa. È vero, da quanto mi dicono, che sui social molti approfittano di queste occasioni per versare valanghe di fango sulle donne. Ma non identificherei i social con l’Italia intera. Ormai tutti hanno capito che si tratta di uno sfogatoio anonimo e meschino da prendere con le molle”.
Già questa violenza maschile, diventata un fil rouge insanguinato quasi quotidiano, fa orrore e apre a riflessioni inquietanti su noi uomini e sulle donne che subiscono la loro violenza. Così vale l’appello accorato della Maraini: “Teniamo presente che le donne spesso sono sole, plagiate, divise fra il bisogno di mantenere unita la famiglia e la voglia di ribellarsi all’interno di una comunità che spesso le condanna a priori. Perciò insistiamo sulla necessità di raccontare, di fare sapere senza vergogna quello che succede in molte famiglie italiane e denunciare prima che sia troppo tardi”.

Agire sul Clima

Seguo con grande attenzione e da anni, prima per altro che fosse diventato così di moda, il dibattito sul cambiamento climatico. Già nel 2002 con l’Anno internazionale delle Montagne ponemmo in prima fila la questione dell’impatto, dimostratosi veritiero, dell’aumento delle temperature sulle Alpi e su tutte le montagne del mondo con conseguenze a breve, medio e lungo termine.
Il mondo scientifico - e mi sono convinto della tesi - è quasi all’unisono d’accordo sulle gravi responsabilità umane in questa faccenda per l’incidenza delle nostre attività sull’equilibrio del nostro pianeta. Ho letto le ragioni dei negazionisti, quelli ragionevoli, ma non mi hanno convinto.
Trovo, tuttavia, che il dialogo sia necessario e per questo mi ritrovo con quanto scritto sul Foglio da quello spirito bizzarro, pur nella schiera degli scettici sul cambia climatico, che è Giuliano Ferrara.
Così scrive: “Bisognerebbe stipulare un patto di civiltà fra i green washers (quelli del riscaldamento globale) e i green bashers (quelli di noi che dissentono e si oppongono). Ora che si va verso il caldo estivo ma nel fresco relativo e a sorpresa dei primi di giugno, ora che la siccità è in riflusso e sulle alluvioni e bombe d’acqua si riflette con minore intransigenza eziologica (le cause antiche e recenti, le vere responsabilità nella manutenzione di fiumi e bacini), è forse il momento di un piccolo accordo provinciale di distensione intelligente (il mondo è strano e troppo vasto).
Non fa specie per noi che si registrino aumenti delle temperature medie e i fenomeni conseguenti, che si diffonda un misurato allarme, che si prendano misure. Dovreste voi riconoscere che i modelli predittivi apocalittici sono fallibili, che il clima e il meteo sono luoghi di contraddizione conoscitiva, che il contributo della macchina umana al funzionamento e all’equilibrio vitale della macchina naturale è discutibile, c’è e non c’è, può essere in parte o largamente sopravvalutato”.
Mi sembra un modo civile di porre le questioni è così prosegue Ferrara: “Noi comprendiamo l’allarme specie tra i giovani, e non escludiamo affatto si diffonda tra le mode e le stupidaggini estinzioniste un’autentica vocazione a curare il pianeta, sebben spicchi una tendenza ideologica o addirittura religiosa a un eccesso di visione (chi desidera visioni, diceva Max Weber, vada al cinema). Voi dovreste riconoscere che molte pulsioni concorrono spesso a una festa dell’infatuazione horror intorno al clima, e non sempre in modo razionale, non sempre sulla scia di dati sperimentali certi indicati da un numero ingente di esperti e istituzioni scientifiche.
Dovreste piantarla di riferirvi a Trump come al principe dei negazionisti, e di farlo in modo polemico rilanciando una dialettica destra-sinistra o populismo contro democrazia che non c’entrano niente con l’argomento. Qui per esempio si negava quel che ci sembrava giusto negare da quando Trump, il bellimbusto, aveva politicamente i calzoni corti, anzi era in mutande e sonnecchiava nei dintorni per lui proibiti dell’establishment di New York. Noi cercheremo di temperare il malessere che suscitano i green washers, così potenti nelle grandi conglomerate del marketing industriale e finanziario, o nelle strutture dell’onu e dell’unione europea, e volentieri rinunciamo a considerare un attentato alla prosperità le riserve e alcune misure di deterrenza delle conseguenze del riscaldamento, ora che anche il climato-fanatico Macron ha chiesto un fermo agli eccessi delle politiche verdi intese come colpi all’industrialismo e allo sviluppo”.
Confesso come Ferrara non sia del tutto convincente, ma accomodante, malgrado il suo carattere non sempre accomodante: ”La spocchia è cattiva consigliera, per voi e per noi. Bisogna limitarla, se non si possa del tutto eliminarla. Vero che una grande maggioranza istituzionale la pensa come i più estremi tra i climatofanatici, ma la scienza, come la poesia, non è democratica, non si contano i voti, si valutano le idee e i fatti. Giulio Betti del celebrato centro meteo Lamma ha per esempio valorizzato, forte delle sue convinzioni meteo-ambientaliste anche estreme, ma sempre porte con garbato senso dell’equilibrio, uno studio sulle alluvioni in Romagna che smentisce la ricerca delle responsabilità dirette dell’uomo in rapporto al clima. Ha subito rischiato il processo ideologico. Dall’altra parte, se il professor Franco Prodi con il suo bell’ingegno, le sue prove o testimonianze di carattere scientifico, il suo incanto finto ingenuo e il suo scetticismo vigile, afferma cose in controtendenza, e conclude sulla “bufala” del riscaldamento globale ragionamenti articolati e seri, bisognerebbe evitare di considerarlo, lui e i suoi simili che non mancano e non sono mancati in tutta questa storia, come un mattocchio o un isolato o uno che sa ma il suo sapere non conta. Ancora uno sforzo, per favore, approfittiamo del calo di dieci gradi delle nostre temperature di inizio giugno, prima del Solleone”.
Il tono è garbato, ma val la pena di dire che - convinto come sono che bisogna agire sull’incidenza degli impatti umani sul clima - che certe guerre ideologiche finiscono per creare ritardi e le contromisure possono, anzi devono essere trovate fra tutti coloro che hanno il sale in zucca.

Generazioni a confronto

Sempre difficile capire quale possa essere l’equilibrio in politica fra il vecchio e il nuovo.
Una prima lettura riguarda la politica stessa e il fatto accertabile di come gli scenari di fronte ai quali la politica si trova mutino con un’impressionante rapidità. Ciò avviene con la sgradevole impressione di rincorrere gli eventi e i problemi, che trasformano la politica nella goffaggine di chi avanzi nella neve alta o cerchi di raggiungere il largo durante una mareggiata.
Eppure è così.
Ho visto a suo tempo cosa significhi il nuovo, diventando deputato a 28 anni nella X Legislatura (1987-1992). Ora vedo il vecchio, all’orizzonte dei 65 anni, impegnato come assessore nella XVI Legislatura regionale in Valle d’Aosta.
Non ho mai ritenuta intelligente - e non solo perché Cicero pro domo sua - la celebre rottamazione di renziana memoria. E anche certo nuovismo fine a sé stesso rischia di essere una posizione stucchevole se intesa come una sterile guerra fra generazioni.
Ha detto il Presidente Sergio Mattarella, grande vecchio che dimostra con i suoi graffi periodici come l’esperienza conti: “I giovani si allontanano e perdono fiducia perché la politica, spesso, si inaridisce. Perde il legame con i suoi fini oppure perde il coraggio di indicarli chiaramente. La politica smarrisce il suo senso se non è orientata a grandi obiettivi per la umanità, se non è orientata alla giustizia, alla pace, alla lotta contro le esclusioni e contro le diseguaglianze. La politica diventa poca cosa se non è sospinta dalla speranza di un mondo sempre migliore. Anzi, dal desiderio di realizzarlo. E di consegnarlo a chi verrà dopo, a chi è giovane, a chi deve ancora nascere. La politica, deve saper affrontare i problemi reali, ha bisogno di concretezza”.
In questa nostra società che invecchia e molto rapidamente per via del crollo demografico bisogna giocare sullo scacchiere della politica con tutte le pedine e dare rappresentatività a quante più espressioni possibili.
Chi oggi - com’è avvenuto in Francia - vorrebbe bloccare ogni ragionevole allungamento dei tempi del lavoro (e l’Italia lo ha fatto) sembra non cogliere la realtà di una possibilità di vita allungata quale quella di oggi e di domani. Questo ha come conseguenza - fatti salvi i lavori davvero usuranti - una logica possibilità di restare pienamente attivo nella società.
Un processo che andrebbe meglio regolamentato negli anni che precedono la pensione e che dovrebbe aumentare la possibilità di operare quel passaggio di competenze e di consegne senza il quale avere accumulato conoscenze e esperienze rischierebbe di essere null’altro che un vuoto a perdere.
Mi capita di pensarci e di riflettere come quanto fatto in politica serve per capire meccanismi, studiare mentalità, smontare e rimontare problemi, guardare al mondo e al proprio orto, conoscere cose e soprattutto persone, sentirsi spesso sotto esame, imparare punti di vista.
Un bagaglio prezioso che si vorrebbe lasciare, anche solo in piccoli pezzi, a chi comincia, guardandosi attorno e sapendo che sarà lui stesso a crearsi la sua strada, ma chi ne ha già percorse tante può avere una sua utilità.
Non è presunzione, perché so bene che il passato e la tradizione possono avere una loro utilità, pur dovendo fare i conti con tante cose che cambiano così in fretta da rendere molti aspetti d’improvviso obsoleti. Certe cose, come metodi, approcci, letture dell’animo umano, idee immarcescibili restano piantati come dolmen di pietra che segnano il cammino e tornano sempre utili come borse per gli attrezzi o come quei medicinali di base che teniamo in casa per un loro pronto uso.

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