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04 mar 2020

Essere anziani al tempo del "coronavirus"

di Luciano Caveri

Esiste una sorta di cinismo crescente nei confronti degli anziani. Il che suona di certo come un paradosso in una società come quella italiana che sta invecchiando sempre di più grazie all'allungarsi della vita media e che ha, dall'altra parte del ciclo della vita, sempre meno bambini. Questo significa che le "pantere grigie" stanno contando sempre di più in termini elettorali ed anche per l'economia, come consumatori più capienti. Eppure il "coronavirus" ha acceso un campanello d'allarme. Esiste in chi non sia già in età avanzata e difenda il suo status una certa vulgata di fronte alla malattia, che è facile riassumere. In sostanza - lo si vede dalle chiacchiere quotidiane - questo famoso virus sembra colpire ed uccidere in particolare i "grandi vecchi" e questo, appunto nei commenti, sembra essere considerato come un elemento non così grave dalle generazioni che li seguono cronologicamente.

Tant'è che un nonno "testimonial" (per via del celebre nonno Libero in "Un medico in famiglia" della "Rai"), Lino Banfi, ha saputo interpretare certi disagi dei suo coetanei, partendo da un'annotazione che ricorda cos'hanno vissuto quelli della sua età: «Da bambino, quando ancora vivevo a Canosa di Puglia, ho avuto in serie tifo, paratifo, malaria ed epatite virale... dovevo morire a dieci anni ed oggi che ho 84 anni posso dire che quelle malattie mi hanno fortificato e rafforzato. Dunque, come nonno Libero, dico a tutti i vecchietti come me di non avere paura del "coronavirus" e di stare tranquilli, perché noi abbiamo gli anticorpi e siamo forti!». Poi esce dalla genericità e si riferisce dritto filato a risponde a quella valutazione «Tanto sono già anziani...», che è un segno dei tempi: «Se muore un nonnino non è che abbia meno valore della morte di una persona più giovane. Ma visto che il mio mestiere mi insegna a sorridere e far sorridere anche nei momenti tristi, possiamo dire che almeno una cosa buona questo "coronavirus" l'ha fatta: ha insegnato a tutti gli italiani l'abitudine di lavarsi le mani, spesso e bene». Prima, magari, erano di più quelli che «se ne lavavano le mani...». Insomma, Banfi - e fa bene - mantiene il suo senso dell'umorismo. Ma in realtà questa difficoltà di capire la terza e quarta età non è banale. Non lo è per noi figli con genitori che travalicano gli ottant'anni e la cui vita ricade molto su di noi in una società che stenta ad organizzarsi e loro stessi, come persone, si trovano spauriti in questo ultimo tratto della vita. Della serie "chi la fa, l'aspetti" questi sentimenti li vivremo noi e nei nostri panni attuali ci saranno i nostri figli e sarebbe bene aprire gli occhi sul da farsi. Esiste, infatti, un filone che trascende il cinismo ed approda ad idee bizzarre. Pensate al parlamentare olandese che, mesi fa, ha suggerito di limitare gli interventi chirurgici per i pazienti di età superiore ai settant'anni, consentendo ai geriatri dell'ospedale di decidere se operare o meno e continuare a fornire cure. Un sondaggio ha riscontrato che una parte della popolazione olandese, ma anche belga, dove sul tema si è aperto un dibattito, sarebbe d'accordo con questa impostazione. Ben diverso su questa questione della vecchiaia estrema è il tema così profondo è difficile del fine vita, non dell'eutanasia, e cioè degli strumenti informati e consapevoli che possono evitare di allungare una vita che non è più tale. Questo è un argomento da affrontare sempre meglio e la legislazione italiana incomincia con il "biotestamento" ad offrire qualche timida risposta, ma ci vogliono norme chiare, eticamente fondate, che ruotino attorno all'autodeterminazione delle persone in certe, disperate circostanze, quando cessano dignità e speranze. E' un segno di civiltà e argomento ponderoso ma non aggirabile e lo dimostra proprio quell'atteggiamento emergente sugli anziani in questo tempo gramo del "coronavirus", nella brutta logica "mors sua, vita mea".