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20 mag 2019

Questa storia dei confini

di Luciano Caveri

Con molta delicatezza così scriveva Hermann Hesse, vissuto a cavallo fra il l'Ottocento e il Novecento, due secoli insanguinati dalle dispute attorno alle frontiere, quando la guerra era uno dei mali endemici per il Vecchio Continente: «Nonostante il tenero amore che nutro per il mio Paese, non ho mai saputo essere un grande patriota né un nazionalista... E ben presto è nata in me una diffidenza verso i confini e un amore profondo, spesso appassionato, per quei beni umani che per loro natura stanno al di là dei confini... Col passare degli anni mi sono sentito ineluttabilmente spinto ad apprezzare maggiormente ciò che unisce uomini e nazioni piuttosto che ciò che li divide».

Ci riflettevo, leggendo un articolo su "La Repubblica" di Massimo Recalcati, che compara il periodo di Silvio Berlusconi e del suo centrodestra con l'attuale svolta di Matteo Salvini: «difendere i confini, ribadire la propria identità nazionale contro ogni forma di contaminazione e di infiacchimento morale. Il confine subentra alla libertà come oggetto di una nuova passione. E' l'altra faccia della perversione: mentre la prima - quella berlusconiana - rivendicava la libertà senza confini, la seconda - quella salviniana - esaspera il confine come nuovo oggetto pulsionale. Mentre il primo prometteva di trasformare l'Italia in un paese di Bengodi, il secondo si impegna a proteggere l'identità minacciata». Non è un tema semplice quello delle frontiere, specie in quest'Europa che si accinge a votare il proprio Parlamento e nella discussione ci sono non solo le cosiddette "frontiere esterne", quelle cioè attorno all'Unione europea, ma anche le proprie "frontiere interne", rese dall'integrazione europea aperte prima alle merci e poi ai cittadini dei diversi Paesi membri. Oggi delle frontiere (che evoca "fronte", cioè la "linea di combattimento" nella terribile Prima guerra mondiale) e dei confini (un limite territoriale tracciato spesso in modo arbitrario per i capricci della Storia) si tona a parlare appunto in questo duplice significato. L'Europa deve affrontare l'impatto delle migrazioni dai Paesi poveri, specie africani, che non è - lo dicono le statistiche - così elevato da creare reali paure. Ma la gestione goffa della questione e l'impressione di una crescente insicurezza, in parte reale e in parte fomentata, creano una fibrillazione che innesca il riflesso condizionato di chiudersi a riccio e di considerare chiunque una minaccia, senza ad esempio tener conto del principio basilare dell'ospitalità per chi ha diritto all'asilo politico perché perseguitato nel proprio Paese d'origine. Alla fine manca una politica reale, nazionale ed europea, e si segue più il flusso dei rilevamenti d'opinione, che scelte razionali che riguardino il fenomeno nel suo insieme, che oscilla fra «aiutiamoli a casa loro» (ma non si fa) a «ributtiamoli in mare», cui fa da contraltare, all'opposto, la logica «accogliamoli tutti», estendendo ogni forma di accoglienza e protezione anche ai migranti economici. Questa dinamica fatta di mancate decisioni e rotture insanabili genera la situazione attuale di incertezza, la cui cartina di tornasole è la paralisi del rimpatrio di chi alla fine non ha diritto a restare. Costruire i muri è la pia illusione ottica di fermare un fenomeno che trova sempre nuove strade anche per gli interessi di chi sfrutta questa nuova forma di tratta della disperazione. Vi è poi la questione dei confini interni all'Unione europea. Credo che la Valle d'Aosta nel suo insieme debba dire di "no" a certe derive confinarie. Lo deve fare nel nome delle proprie vicende storiche, che dimostrano dalla notte dei tempi come le Alpi, cui apparteniamo, hanno vissuto millenni in cui le culture vicine erano le stesse e si viveva in un'evidente armonia, fatta di interscambi e condivisione. L'avvento degli Stati ha trasformato sempre più i colli alpini in passaggi per il "via vai" degli eserciti e le montagne in terreno di scontro e di battaglie. Il punto e a capo è arrivato sull'onda degli orrori della Seconda mondiale e della ricostruzione non solo fisica ma morale, dopo gli orrori delle dittature che l'avevano innescata e degli strascichi che hanno diviso l'Europa in blocchi nella fase successiva. Una situazione che si è lentamente appianata perché l'Europa è diventato un fattore comune. Chi oggi vuole invertire la macchina, creare di nuovo i confini, deve fare i conti con una propria scelta anacronistica e pericolosa. Chi attacca l'euro come causa di tutti i mali, non solo è ridicolo nella sua ricostruzione di scenari economici disastrosi causati dalla moneta comune, ma attacca un simbolo che era esempio preclaro del comune senso di appartenenza che si concretizza nella cittadinanza europea. Regredire vuol dire evocare e far tornare fantasmi che fanno paura. Ci vogliono buonsenso e misura, mentre alla fine tornano comodi - in un mondo in cui sono più gli elementi distruttivi della nostra umanità ad avere il sopravvento - questa continua tensione, questo richiamo agli elementi tribali, quei tamburi di guerra che chiamano a raccolta. Si tratta di un crescendo che non porterà bene e che per le popolazioni di confine, che i confini se li sono trovati in mezzo i piedi, questa escalation è come un buco nero che può risucchiarci e farci male.