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24 dic 2018

Il Parlamento nella polvere

di Luciano Caveri

Mai come questa volta, pur a fronte dell'uso ormai parossistico da parte di tutti i Governi del "voto di fiducia", si è registrata una numerosità nell'impiego di questo strumento eccezionale, perché comprime i diritti del Parlamento. Anzi, questa volta a farne le spese - in assenza di reali discussioni sui testi in continuo cambiamento in Commissione Bilancio e naturalmente in aula - è stata la Legge Finanziaria e la sua complessa manovra finanziaria. La scusa è semplice: si è dovuto trattare con l'Europa per evitare i disastri della bocciatura della legge di Bilancio con la drammatica conseguenza del procedimento d'infrazione. Si sarebbe potuto fare per tempo, evitando le conseguenze gravi conseguenze sulla finanza pubblica, sulle imprese e sui risparmiatori-creditori, ma invece il Governo pentastellato ha scelto «di tenere duro» con toni sprezzanti e persino offensivi verso la Commissione e l'Europa. Dovendo poi, infine ed al limitare dell'esercizio provvisorio, scendere a più miti consigli e sostanzialmente rimangiandosi larga parte della manovra ed adeguandosi a quelle regole europee cui l'Italia ha aderito.

Nel frattempo, prima alla Camera e poi al Senato, è stato un susseguirsi di sussurri e grida sugli emendamenti nelle materie più disparate che mai e poi e poi mai a questo livello ho visto neppure, lavorando sulla Finanziaria dello Stato giorno e notte (come un parlamentare valdostano deve fare), ai tempi della terribile Prima Repubblica. Un guazzabuglio di notizie che hanno creato solo caos e che hanno trasformato la manovra finanziaria in una specie di treno con troppi vagoni da trascinare in barba alla scelta fatta anni fa di semplificare al massimo le norme finanziarie per evitare una giungla normativa e di materie. Infine, prima a Montecitorio e poi in ritardissimo a Palazzo Madama, la tagliola della fiducia su un testo nuovo di zecca, che dovrà essere confermato dalla Camera a grande velocità. Penso anch'io, come alcuni costituzionalisti, che così facendo si violi la logica di una "democrazia parlamentare" con i parlamentari diventati come niente altro che delle comparse. Mi stupisce - lo dico con franchezza - che la Lega, che è nelle Istituzioni da tanti anni e che fa parte di un sistema ben conosciuto ed accettato con ruoli apicali di vario genere, accetti in sostanza una logica invece ben chiara nei "grillini" ora pentastellati: il manifesto desiderio di smontare la "democrazia rappresentativa". Il vero dominus dei "Cinque Stelle" è la "Casaleggio e associati", così Davide Casaleggio, riprendendo le tesi del papà in una logica politica ereditaria che colpisce ha detto in un intervista: «Oggi grazie alla Rete e alle tecnologie esistono strumenti di partecipazione decisamente più democratici ed efficaci in termini di rappresentatività popolare di qualunque modello di governo novecentesco. Il superamento della democrazia rappresentativa è inevitabile». Ed ha aggiunto senza scrupoli: «il Parlamento ci sarebbe e ci sarebbe con il suo primitivo e più alto compito: garantire che il volere dei cittadini venga tradotto in atti concreti e coerenti». Ma ha ulteriormente precisato: «tra qualche lustro è possibile che non sarà più necessario nemmeno in questa forma». Per cui l'atteggiamento dimostrato verso il Parlamento in queste ore è esattamente nel solco di queste affermazione ed avviene con insolita coerenza. Luca Ricolfi lo scrisse, con logica preveggente, nel 2014 su "La Stampa" e quel programma è in pieno stato di avanzamento, ma si nota già qualche tentennamento degli elettori che ci hanno creduto. Ecco Ricolfi: «L'iper-democrazia è un'ideologia che si è consolidata solo negli ultimi vent'anni, in concomitanza con il trionfo di Internet, ma le cui radici risalgono a quasi mezzo secolo fa, e precisamente al biennio 1968-1969. Che cosa è capitato, in quei due anni cruciali? Due cose, fondamentalmente. Nelle scuole e nelle università è nata l'ideologia assembleare, il cui nucleo logico è il seguente: le decisioni le prendono coloro che si riuniscono in assemblea, gli assenti hanno sempre torto. L'idea soggiacente è quella di una sorta di primato morale della politica: se fai politica, se sei impegnato, allora sei un gradino sopra gli altri; se invece non la fai, allora sei un egoista, un opportunista, un edonista, o come minimo un qualunquista. E questo a dispetto del fatto che chi fa politica è una minoranza, e la maggioranza ha altro da fare (pochi lo sanno, ma nel mitico '68 gli studenti politicamente attivi erano solo uno su cinque). Ecco perché la minoranza politicizzata si sente moralmente superiore, e disprezza profondamente la massa che si astiene dalla politica, cui riserva termini carichi di connotazioni negative: maggioranza silenziosa, apatici, qualunquisti. Il complesso di superiorità della sinistra nasce anche di qui. Ma c'è un altro evento capitale in quegli anni: il 7 gennaio 1969 nasce un tipo di trasmissione radiofonica completamente nuova, "Chiamate Roma 3131", che diventerà un modello per decine di altre trasmissioni consimili. In essa gli ascoltatori diventano improvvisamente protagonisti: chiunque può telefonare e intervenire a prescindere da qualsiasi credenziale di cultura, esperienza, autorevolezza. Oggi ci sembra normale, ma allora fu un'assoluta novità, che cambiò completamente il rapporto fra pubblico e media. Da allora, sia pure lentamente e gradualmente, si fece sempre più strada l'idea che tutti possono essere protagonisti e, soprattutto, che non è richiesta alcuna speciale dote, competenza o merito per poterlo essere». Sui "social" questo fenomeno si è dilatato a dismisura ed anche il più imbecille e ignorante si sente legittimato a sentirsi un solone. Proseguiva Ricolfi: «Che cos'è il Movimento Cinque Stelle? Per molti versi non è altro che la micidiale fusione di questi due cambiamenti epocali, entrambi risalenti a mezzo secolo fa. Grazie alla diffusione di Internet, l'utopia di una comunità di decisori potenzialmente universale, in cui tutti decidono su tutto, è sembrata improvvisamente una possibilità reale. Il mito della democrazia diretta, da cui Norberto Bobbio ci aveva sempre messi in guardia, è sembrato finalmente alla portata dei tempi. Una volta acquisito che tutti possono circolare in rete, una volta stabilito che il discorso pubblico non richiede alcuna speciale competenza, una volta interiorizzata l'idea che chi fa politica è migliore di chi non la fa, c'erano tutte le condizioni per la nascita di un movimento come quello di Grillo: un movimento iper-democratico, perché fondato sulla credenza che tutti possano partecipare e sulla convinzione che debbano farlo. Restava un piccolo problema, un dettaglio non risolto. La maggioranza della gente, la stragrande maggioranza delle persone normali, ha un sacco di cose da fare e non si diverte affatto a fare politica, a meno di voler chiamare "politica" il fare gli spettatori nei combattimenti di galli che ogni sera ci offrono Floris, Santoro, Formigli, Paragone, eccetera. Da decenni e decenni le inchieste rivelano che i cittadini politicamente attivi sono una piccolissima minoranza (diciamo il tre per cento), e che la maggior parte della popolazione o disprezza, o ignora, o assiste passivamente alla commedia della politica. E questo è ancora più vero nel movimento di Grillo, dove i militanti sono circa lo 0,5 per cento degli elettori, ossia qualcosa come cinque persone su mille. Ciò crea un salto, una vera e propria frattura, fra la grande e silenziosa maggioranza degli elettori, che si limita a votare e tutt'al più a informarsi, e la minoranza degli impegnati, che frequenta sempre meno le sedi di partito superstiti ma, in compenso, inonda la Rete di ogni sorta di pensieri, analisi, insulti, volgarità, esternazioni più o meno ostili alla grammatica italiana. Ma non si tratta solo di una frattura, quella c'è sempre stata, anche ai tempi del glorioso Pci. La novità è che ora, con il movimento di Grillo, a quella frattura si dà uno statuto nuovo, esplicito e paradossale. Grillo sogna una civiltà digitale in cui tutti, seduti davanti al proprio schermo, partecipino alle decisioni fondamentali della comunità. Una civiltà iper-democratica perché tutti possono partecipare, tutti hanno le competenze per farlo, e l'assenza di partecipazione è una colpa, come era nel '68 e come, sotto sotto, è sempre rimasta nella cultura e nella mentalità della sinistra». E veniamo alla parte in cui l'autore dimostra una capacità previsionale non comune: «Questa visione della democrazia e della partecipazione genera almeno due conseguenze. La prima è il sostanziale disprezzo per la democrazia rappresentativa, che si basa invece proprio sul principio opposto, secondo cui la gente ha il pieno diritto di non occuparsi attivamente di politica, ed è del tutto normale che il cittadino deleghi ad altri, i politici di professione, il compito di amministrare la cosa pubblica. La seconda conseguenza è il disprezzo per il proprio stesso elettorato, ossia per quei 995 elettori su mille che non partecipano alle decisioni in Rete. Questo disprezzo, non il presunto fascismo o stalinismo, è secondo me il vero lato inquietante del grillismo. Perché, nel movimento di Grillo come negli altri partiti, i militanti non sono affatto un campione rappresentativo degli elettori. Spesso sono invece i più aggressivi, i più faziosi, i peggio informati (perché leggono tanto, ma solo ciò che li conferma nelle loro opinioni), i meno vicini al sentire comune delle persone normali. Le quali lavorano, studiano, si divertono, cercano la loro via nel mare aperto della vita. L'iper-democrazia della Rete, molto poco democraticamente, le snobba e le esclude, e in questa esclusione rivela il vero volto di sé stessa». Oggi il disprezzo investe il Parlamento e colpisce i parlamentari di tutti i Gruppi, la maggioranza che tace e acconsente e l'opposizione che protesta ma senza creare alternative.