Utilizziamo i cookie per personalizzare i contenuti e analizzare il nostro traffico. Si prega di decidere se si è disposti ad accettare i cookie dal nostro sito Web.
10 nov 2018

I dolori della guerra dentro di noi

di Luciano Caveri

Amo la Storia e la studio nella convinzione che solo conoscendola capiamo qualche cosa di più di noi stessi e quanto certi passaggi servano come un vaccino contro orrori, odi, errori e molto altro ancora. Scopro sempre di più che l'istruzione di base resta uno dei problemi dell'Italia ed anche della Valle d'Aosta: che sia una cattiva istruzione o un analfabetismo di ritorno conta poco, quel che vale è che ci siano troppe persone spaesate, che non hanno neppure consapevolezza delle loro radici più vicine, figurarsi dei quadri d'insieme che servono per capire problematiche più vaste. Ho lamentato, anche in trasmissioni radiofoniche, come un'occasione in larga parte perduta per saperne di più sia stato il centenario della Prima guerra mondiale, fortemente centrato su addetti ai lavori più che al grande pubblico. Di "reducismo" propriamente detto non se ne poteva fare, essendo ormai morti tutti i protagonisti, ma certo una patina di retorica e di enfasi ha talvolta ammorbato l'aria, quando invece l'occasione serviva per far bruciare le ferite della guerra e questo senza nulla togliere agli atti di eroismo ed al senso del dovere.

Ha scritto il grande giurista Piero Calamandrei nel secondo dopoguerra e lo fece dopo essere stato nella Grande Guerra ufficiale volontario, poi capitano e infine - prima di lasciare l'esercito per la carriera accademica - tenente colonnello: «Chi è che semina le guerre? Se tra uno o tra dieci anni una nuova guerra mondiale scoppierà, dove troveremo il responsabile? Nell'ultima guerra la identificazione parve facile: bastò il gesto di due folli che avevano in mano le leve dell'ordigno infernale, per decretare il sacrificio dei popoli innocenti. Ma oggi quelle dittature sono cadute: oggi le sorti della guerra e della pace sono rimesse al popolo. Questo vuol dire, infatti, democrazia: rendere ogni cittadino, anche il più umile, corresponsabile della guerra e della pace del mondo: toglier di mano queste fatali leve ai dittatori paranoici che mandano gli umili a morire, e lasciare agli umili, a coloro ai quali nelle guerre era riservato finora l'ufficio di morire, la scelta tra la morte e la vita. Ma ecco, si vede con terrore che, anche cadute le dittature, nuove guerre si preparano, nuove armi si affilano, nuovi schieramenti si formano. Chi è il responsabile di questi preparativi? Si dice che gli uomini, che oggi sono al potere, sono stati scelti dal voto degli elettori: si deve dunque concludere che le anonime folle degli elettori sono anch'esse per le nuove carneficine? Questa è oggi la terribile verità. La salvezza è solo nelle nostre mani; ma ognuno di noi, se la nuova guerra verrà, sarà colpevole per non averla impedita. Se domani la guerra verrà, ciascuno di noi l'avrà preparata. Non potremo nascondere la nostra innocenza dietro l'ombra dei dittatori: quando c'è la libertà, tutti sono responsabili, nessuno è innocente». Meglio ragionarci sopra, compresi i dubbi che oggi possiamo avere sull'avvenuta sepoltura delle dittature. Spicca, nelle rievocazioni degli eventi bellici, un libro della "Avas - Association Valdôtaine Archives Sonores" a cura di Stefania Roullet e Carlo A. Rossi, intitolato "Sen alà soutta... jeunes valdôtains à la granta guéra", che nella prima frase evoca questa guerra di posizione e di trincea fatta di quegli assalti terribili e luttuosi, decisi con cinismo dai Generali. Il volume conta sui contributi di Fabio Armand, Marco Crétaz e Thomas Larivière stampato dalla "Tipografia Duc", comprensivo di una scrittura e di una grafica molto convincenti con grande apparato iconografico che attira il lettore e con l'aggiunta di un "dvd" con testimonianze orali ed altro materiale. Vi figura un primo capitolo ricco di testimonianze di soldati valdostani, diari assai ricchi di notizie dal vivo delle battaglie, fotografie e documenti che ci restituiscono con freschezza l'ansia, i dolori e le speranze di quegli anni così terribili. Lo stesso vale, al capitolo due, per le lettere dal fronte. Molto utile è poi il terzo capitolo che racconta una storia penso abbastanza ignota di un ebreo egiziano, Ettore Mieli, amico di un soldato valdostano, che tenne nella sua lingua di comunicazione, il francese, un diario di guerra, di cui vengono pubblicate alcune parti. Un'operazione culturale, attenta ad indirizzarsi ad un pubblico vasto, con evidente possibilità di adoperarlo come materiale non solo per il proprio arricchimento culturale, ma anche come oggetto di studio e di didattica. Se è vero, infatti, che le celebrazioni del secolo dalla Guerra sono servite a far fiorire una vasta produzione editoriale, questo libro racconta in modo efficace come la storia locale si incroci con la storia del mondo e come le storie personali - le più interessanti per capire le reazioni e i sentimenti umani - finiscano per creare simpatia ed empatia molto più di libroni pensosi e di documentazioni ponderose. Sono personalmente grato agli autori per questo lavoro importante e ricco, partendo da una prefazione quantomeno originale di Maura Saita Ravizza, psicogenealogista, che mi ha fatto sobbalzare nello scoprire quanto io stesso - in miei personali elucubrazioni senza alcun fondamento - avevo immaginato che fosse. Vale a dire che - cito l'autrice - recenti studi di "epigenetica" (branca della biologia molecolari che si occupa delle caratteristiche ereditabili non codificate nelle sequenze del "dna"): «Il trauma modifica piccole frazioni di materiale genetico chiamato microRna e che questa alterazione si trasmette per tre generazioni». Come dire che anche l'impronta di una guerra non segna solo chi la vive, ma trasmette anche a chi viene dopo certi segni e le conseguenze di quanto vissuto e subito.