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02 ott 2018

No al burqa

di Luciano Caveri

L'impatto di culture diverse dalla propria ha sempre creato problemi ai Paesi di accoglienza e più sono diversi gli usi e i costumi, maggiore è stato lo sforzo per conciliare due spinte diverse altrettanto legittime. Da una parte la richiesta di chi c'era già di integrare "lo straniero", mentre per quest'ultimo è comprensibile voler mantenere aspetti importanti della propria identità, che possono anche in molti casi arricchire il mondo in cui va a vivere. Tutto ruota alla fine fra altri due opposti: da una parte il "relativismo culturale" (concezione secondo la quale gli elementi di una data cultura vanno compresi e valutati nell'ambito del gruppo sociale a cui essa appartiene. In tale prospettiva non si può più considerare una data cultura superiore o inferiore a un'altra (ad esempio, quella occidentale), ma semplicemente diversa), dall'altra "l'etnocentrismo" (la tendenza a giudicare le altre culture ed a interpretarle in base ai criteri della propria ed a proiettare su di esse il nostro concetto di evoluzione, di progresso, di sviluppo, di benessere).

Ovviamente, rispetto a questi due opposti estremismi, vale la regola del "buonsenso" e, nel caso occidentale, i diritti e doveri - direi di stampo costituzionale, visto il ruolo delle Carte fondamentali - che fondano lo Stato di diritto a cui si deve rifare il nostro senso di cittadinanza e di comunità, cioè del vivere assieme. Questo significa - per venire al concreto - che il valore della libertà religiosa trova, ad esempio, un limite nel rispetto dei diritti della donna che non possono essere calpestati nel nome della diversità e soprattutto con la motivazione speciosa «che sono le donne a chiederlo». Caso di scuola riguarda la polemica dei vestiti che, specie gli islamici più radicali per non dire degli islamisti, ritengono essere quanto le donne debbono indossare per seguire i propri precetti religiosi. Uno è il "niqab", che è un velo che copre il capo e il volto, lasciando solo una striscia libera per gli occhi. Spesso usato insieme a una sciarpa per il capo e ad un'ampia veste per il resto del corpo, è il tipo di abbigliamento più diffuso, in pubblico, tra le donne dell'Arabia Saudita. Sul retro si allunga fino a coprire i capelli, sul davanti arriva a nascondere completamente il petto. L'altro è il "burqa", che resta il più integrale dei veli islamici e che copre l'intero corpo, dalla testa a piedi, compresi gli occhi, schermati da una struttura di stoffa fatta "a griglia". Si indossa soprattutto in Afghanistan, dove fu imposto dai talebani, ed un'interpretazione assoluta che affonda le radici in motivi di ordine culturale e sociale: nel "Corano" non si menziona l'obbligo del "burqa". Domenica scorsa il Cantone svizzero di San Gallo, seguendo il Canton Ticino, ne ha vietato l'uso in pubblico, pena una multa. Nulla di nuovo in Europa, perché - pur con qualche piccola diversità - era già stato deciso in Francia nel 2011 e nello stesso anno era stato stabilito dal Parlamento belga. L'anno scorso, ripetendo in sentenza quanto già stabilito per la normativa francese, la Corte europea dei diritti umani (quella di Strasburgo, legata al "Consiglio d'Europa" e non all'Unione europea, con cui spesso si confonde) ha dato ragione al Belgio, confermando che la legge che vieta alle donne musulmane di indossare il velo integrale o parziale in luoghi pubblici non è un atto discriminatorio e non viola il diritto al rispetto della vita privata ed alla libertà di pensiero, coscienza, religione. Il ricorso era stato presentato da tre donne di religione musulmana che si sono schierate contro le leggi municipali e nazionali introdotte nel 2008 e 2011, considerate, secondo le parole del legale, «una sproporzionata intrusione dello Stato nella sfera dei diritti individuali come la libertà di espressione e di religione». I giudici sostengono che il divieto di indossare il "niqab" ed il "burqa" in luoghi pubblici è giustificabile perché la legge mira a garantire le condizioni del vivere assieme. La Corte aggiunge tra l'altro che gli Stati, in questo caso il Belgio, sono in una posizione migliore rispetto a quella della corte di Strasburgo per giudicare «le necessità locali e nazionali e il contesto». Adottando questo divieto lo Stato belga, affermano i giudici, ha voluto rispondere a una pratica considerata incompatibile nella sua società con la comunicazione interpersonale e con la costruzione di relazioni umane, indispensabili per la vita collettiva. Cito - avendolo trovato in francese - qualche passaggio della sentenza: «Dès lors que la dissimulation du visage a pour conséquence de priver le sujet de droit, membre de la société, de toute possibilité d'individualisation par le visage alors que cette individualisation constitue une condition fondamentale liée à son essence même, l'interdiction de porter dans des lieux accessibles au public un tel vêtement, fût-il l'expression d'une conviction religieuse, répond à un besoin social impérieux dans une société démocratique», dice la Corte. Ed ecco il passaggio dell'eguaglianza fra generi: «le port d'un voile intégral dissimulant le visage prive, en effet, la femme, seule destinataire de ce prescrit, d'un élément fondamental de son individualité, indispensable à la vie en société et à l'établissement des liens sociaux». Anche in Italia, negli uffici pubblici e negli ospedali della Regione Lombardia, viene vietato dal 2015 l'uso dei due vestiti "coprenti" ed il giudice Martina Flamini, respingendo il ricorso di alcune associazioni contro il provvedimento, ha scritto: «il divieto di accesso a viso coperto in uffici ed enti pubblici è uno svantaggio per quelle islamiche che, per ragioni di tradizione e per professare il proprio credo religioso, indossano il velo». Ma questo "svantaggio" è «oggettivamente giustificato da una finalità legittima, costituita dalla necessità di garantire l'identificazione e il controllo al fine di pubblica sicurezza». In linea, per la giudice, con la Corte di Strasburgo, che nel 2005 ha legittimato "la rimozione del turbante o del velo per permettere i controlli negli aeroporti", il divieto "interessa esclusivamente le persone che accedono in determinati luoghi pubblici" e soprattutto, "per il tempo strettamente necessario alla permanenza". Non è un aspetto formalistico, ma sono segni di civile convivenza. Per me, come essere umano, vedere - come mi è capitato in Paesi arabi, anche di stampo moderato - donne con il "burqa" in spiaggia con il sole a picco o mentre sotto un grattacielo si fanno un selfie (come fanno a dire che erano loro?) mi indigna, trattandosi di una sorta di "prigione" portatile.