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28 set 2018

Quando muore un ragazzino

di Luciano Caveri

I drammi del mondo non possono pesare troppo sulla nostra quotidianità e non per egoismo o disinteresse. Nel senso che, se davvero fosse così e se dovessimo riempire la nostra testa di tragedie che paiono infinite, non muoveremmo più un passo, come schiacciati da un peso di dolore che scorre a fiumi. Invece, com'è normale che sia, ci concentriamo - pur non vivendo in una bolla d'aria - sulle cose da fare. Quando impariamo a volerci bene, ci attacchiamo agli affetti più veri, meno traditori. Capita di pensare a questo quando, invece, un fatto di cronaca - apparentemente circoscritto proprio rispetto alle vicende di grande dimensione - appare come un lampo e ti immedesimi, mettendoti appunto nei panni di chi ci si ritrova. Leggo di questo ragazzino di tredici anni, Matteo, morto in bicicletta, scendendo da una strada che porta al castello di Quart contro una vettura (le dinamiche sono in via di accertamento).

Una vicenda triste nella sua crudezza, che innesca tanti pensieri ed anzitutto la tristezza dell'immedesimazione nei panni dei genitori, dei parenti, degli amici. E' come una stretta al cuore, che scuote per la vicinanza in una piccola comunità come quella valdostana e per la terribile ingiustizia di una vita spezzata anzitempo. Giorni fa, un vecchio papà - che ha perso l'anno scorso il figlio mio amico e quasi coetaneo - piangeva di fronte a me lacrime amare nel pensiero non solo della perdita in sé, ma del fatto stesso di non riuscire a farsene una ragione a distanza di un anno da una morte brutale ed inattesa. Non riesco davvero, in questi casi, di fronte allo strazio, a trovare le parole giuste, che non sia un abbraccio che mostra più di tanto quel lato affettuoso, direi carnale, della nostra umanità. Ho visto, in casi analoghi, vacillare anche persone con una fede profonda, prostrate di fronte all'abisso di un figlio perduto, quando una telefonata piomba improvvisa a dividere la tua esistenza nel prima e nel dopo. Ricordo un papà che aveva perso la figlia, che aveva deciso di uccidersi, come un automa smarrito, che si guardava le mani alla ricerca di chissà che cosa e con un volto impietrito in cui la tragedia appariva nelle rughe del volto. Mi capitò anche con una madre molto anziana e famosa, che aveva perso un figlio adulto, gettatosi da un ponte, che aveva già vissuto - a dimostrazione di dolori ripetuti - la fine del marito in anni lontani ed in circostanze drammatiche. Fu solo un gioco di sguardi ed il mio farfugliare qualcosa, che forse non aveva senso, anzi non ne aveva affatto. Come parole che rimbalzano inutili laddove neppure il silenzio serve a lenire. Già, è davvero una maledizione piangere la morte di qualcuno che mai dovrebbe precederti nell'eterno riposo, invertendo quella logica naturale che scandisce il ciclo della vita e della nostra discendenza. Fatemi cambiar tema, ma restando sulla pista della morte con un messaggio di speranza. Scriveva qualche mese fa Claudio Magris sul "Corriere della Sera" su di uno dei passaggi della Bibbia più commentati e difficili, che riguarda la morte, in questo caso non avvenuta, di un figlio: «Una delle più grandi di queste storie piene di significato è la storia biblica del sacrificio di Isacco, terribile partita a tre fra Dio, Abramo cui Dio ordina di salire sul monte e di sacrificare il figlio Isacco, e quest'ultimo. L'assoluto e disumano comando ha offerto per secoli materia di discussione, polemica e rinarrazione. Le pagine più grandi, tuttora brucianti, sono quelle di Kierkegaard, secondo le quali l'episodio biblico è la parabola di un insolubile, tragico e colpevole conflitto fra fede e morale. Dio ordina ad Abramo di compiere un'azione moralmente orribile, che violerebbe le stesse leggi date da Lui. Abramo, dal punto di vista della morale, dovrebbe dire di no, ma dal punto di vista della fede dovrebbe dire di sì, perché Dio è l'Assoluto, incomprensibile per i criteri umani di giudizio e non soggetto ad alcun decalogo morale. Abramo infatti si accinge ad obbedirgli, salendo insieme al figlio sul monte dove dovrebbe aver luogo il sacrificio, ed è Dio stesso, che ha messo alla prova la sua fede, a fermarlo e a salvare Isacco. Tanti possono essere i significati di questa tremenda storia di fondazione totale della fede. Per caso, spinto da un acuto e ampio saggio di Carmelo Aliberti - poeta e critico cui si devono molti saggi sulla letteratura italiana e in particolare, ma non soltanto, su quella meridionale - ho letto il libro forse più bello di Carlo Sgorlon, vigoroso narratore epico di cui pure non condividevo la risentita e ideologica polemica contro la letteratura contemporanea, i "Racconti della terra di Canaan". In uno di questi, a chiedere imperiosamente il sacrificio di Isacco non è Dio, bensì un richiamo atavico che sorge dal profondo, venendo accolto come fosse la voce di Dio. Una voce che ordina di ripristinare l'antico sacrificio del primogenito praticato da molti popoli in età arcaica, un comandamento inconscio di regredire a costumi tribali del passato, con un senso di colpa per aver trasgredito l'antico modo di essere e di esorcizzare la paura delle tenebre. E' un idolo che gli impone il sacrificio di sangue, ma un'altra voce nel cuore di Abramo lo libera, la voce di qualcosa cui Abramo dà il nome di Dio, quel Dio che, come sta scritto, ha detto "Non vi farete idoli", neanche quando essi possano assumere l'aspetto di una legge divina, fondando così una radicale premessa di libertà, forse il più grande dono che l'ebraismo ha dato al mondo». Questa storia di Abramo, quando ero ragazzino, mi turbava: mi mancava una spiegazione logica perché ovviamente un prete - uomo di fede - non poteva svelarmi quel gioco duro di quel Dio biblico per aprire gli occhi - questo il punto che ci arriva dalla remota civiltà dell'Antico Testamento - contro gli eccessi dell'ideologia se diventa idolatria, che causa morti e disastri. Ma Magris è ancora più acuto: «La salita di Abramo su quel monte è una pietra miliare nel faticoso cammino della nostra specie dalla barbarie all'umanità. Un cammino, peraltro, tante volte - anche in epoche di vantata civiltà, umanità e progresso - interrotto e capovolto in un feroce ritorno alla febbre di barbarie e di sangue. C'è una crescente contraddizione. Il progresso tecnologico comporta certo pure aspetti inquietanti, anche per la sua velocità e i suoi usi talora inumani, che inducono gli individui a sentirsi talora sopravvissuti in un mondo incomprensibile. Quel progresso offre pure grandi possibilità di migliorare la qualità della vita, ad esempio possibilità tecniche sino a ieri ignote di salvare vite umane. Inoltre si è riconosciuta dignità e parità di diritti a categorie umane prima ignorate, disprezzate ed oppresse senza che se ne avesse nemmeno consapevolezza. Si sono riconosciuti diritti civili a persone, culture, comunità, minoranze sinora - e ancor oggi - barbaramente calpestate. Ma è anche cresciuta la moltitudine di chi si trova nell'impossibilità di soddisfare i bisogni elementari dell'esistenza e vive, quando non muore, come un animale randagio e sfinito. Inoltre aumentano sempre più, nel mondo, i massacri su larga scala, innumerevoli Isacco sacrificati e scannati senza che nessuno fermi o voglia veramente fermare il loro sterminio. Il cammino della civiltà è arduo e contraddittorio, procede e regredisce. Forse, si potrebbe dire, è un cammino che ricomincia con ogni generazione, con ogni uomo, senz'alcuna sicurezza che prevalga - oggi come ieri, come domani - l'umanità. Stiamo salendo sul monte, come quei due il cui destino, durante la salita, è ancora incerto e non sappiamo, per quel che ci riguarda, come andrà a finire». La minaccia di morte ad un bambino per riflettere: di fronte a lutti che già ci piombano sulla testa come meteoriti bisognerebbe evitare di alimentare i dolori con comportamenti umani scellerati.