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29 giu 2018

Giornalismo e politica: sentirsi démodé

di Luciano Caveri

Tranne la scoperta futura di qualche nuova vocazione, la mia vita si è snodata sul binario di due passioni: il giornalismo e la politica. Nel raccontare l'esame di Maturità di quest'anno ho evocato - con nostalgia ed anche con una certa impressione per il tempo trascorso - i quarant'anni da allora. Proprio nel 1978 cominciai a fare il giornalista a Torino a "Radio Reporter 93" con un impegno professionale vero, dopo aver giochicchiato con il microfono negli anni precedenti a "Radio Saint-Vincent". Meno di dieci anni dopo, per i casi della vita, venni eletto alla Camera e da lì - era il luglio del 1987 - comincia la mia carriera politica, snodatasi con cariche elettive fino al 2013 (non che dopo abbia lasciato la passione...). Per cui potrei dire scherzosamente che sono stato "servo di due padroni", alternando in sostanza le due sponde. Per questo credo di poter dire la mia su alcune evoluzioni che non mi piacciono in entrambe le attività.

Nel giornalismo italiano, con evidenti riflessi su quello valdostano (che è poi un mondo piccino piccino dove tutti ci conosciamo), si è affermato nella cronaca politica, sostituendo i vecchi pastoni politici del passato e una certa nettezza in logica anglosassone fra notizia e commenti, il "retroscenismo". Vale a dire lo sforzo del giornalista di anticipare fatti e circostanze affidandosi alle voci e alle notizie raccolte per disegnare scenari. Niente di male in realtà non fosse però che questa nouvelle vague si è ampliata talmente con situazioni ormai grottesche. Da una parte c'è chi gioca davvero con le vicende, come una specie di apprendista stregone che si diverte a mettere insieme puzzle fantasiosi per creare reazioni con cui si esalta e scoop farlocchi che lo rendono più importante di quel che è. Ci sono poi quelli che scelgono di entrare nei "cerchi magici" per propria ambizione o per cause meno nobili, diciamo più venali, che dunque diventano megafono con i loro retroscena, amplificando quelle che possono essere definite "notizie del diavolo", atte cioè a creare reazioni e confusione con vaste dosi di malizia, per usare un termine tenue e non volgare. Alla fine la notizia nuda e cruda, verificata e certificata sino alle fonti più autentiche, finisce nel dimenticatoio, invasa per così dire da altri messaggi che servono ad altri scopi. Ciò serve ancora di più a svilire la politica, laddove non ci pensa ampiamente da sola, trasformando anche le trattative o le circostanze più nobili in "suk" mediorientali con fronzoli e aggiunte che nulla servono se non a rendere un'immagine sporca e degradante. Non ci rimette solo il politico ma anche il giornalista, che già di par suo svolge una professione un tempo amatissima e invidiabile, mentre oggi va a mille all'ora verso situazioni di precariato e sfruttamento. In politica poi si assiste ormai ad una confusione crescente, che può avere diversi commenti, ma quel che più mi colpisce è che mai cessa quella fregola elettoralistica che investe come uno tsunami ogni scelta che viene effettuata. L'eterna campagna elettorale - e dunque il rapporto perverso con l'informazione e la grancassa dei "social" cui si dà un'importanza quasi ossessiva - trasfigura ogni problema e le sue possibili soluzioni. Si è fatto raro l'approfondimento dei dossier, si reagisce a caldo, spesso solo guardando alla brevità del risultato per fare suonare la grancassa. Così come si usa l'effetto annuncio in maniera così pedante da far risultare come già avvenute cose che si auspicano, per poi cambiare argomento pur non avendo affatto risolto quello precedente. Viene meno, nel nome di un senso distorto della trasparenza, quella parte più riservata della politica, che è fatta di capacità di risolvere le cose anche in momenti ristretti di confronto ruvido e non solo in favore di telecamere o di messaggistica su "Twitter" o "Facebook". Invece prevale la logica pubblicitaria, la voglia di apparire anche quando è prematuro, l'annuncio choc, volutamente brutale, seguendo il filo per cui una buona notizia non fa notizia, lo fa l'urlo, l'anticonformismo, il politicamente scorretto. Così si banalizza tutto, il confronto diventa fittizio perché piegato ad esigenze spicciole, si fa strada la mediocrità di chi passa il tempo a contare i voti e non a lavorare in ufficio, meglio essere presenti a mille manifestazioni che stare tranquillo a leggere carte necessarie per lavorare. E' una fine miserrima della politica amministrativa, cui si somma la pochezza culturale di troppi che non hanno avuto l'umiltà di studiare come prerequisito per affrontare posti di responsabilità. Emerge, in questa lotta da homo homini lupus, il peggio della competizione e il venir meno di regole essenziali di comportamento. Tutto ciò, sui due versanti, mi intristisce, pensando che essere démodé è oggi quasi una medaglia da appuntarsi sul petto. Esistono squarci di luce ad illuminare la scena, perché quando si cade in basso e ancora si scende sembra logico pensare che alla fine si voglia risalire, come un apneista che a un certo punto - arrivato a toccare il fondale sabbioso - conscio di non avere più aria nei polmoni deve risalire in superficie per non morire.