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02 mag 2018

O Franza o Spagna, purché se magna

di Luciano Caveri

Ricordo quando nel 1992 si creò in Valle d'Aosta una situazione politica particolare in occasione delle elezioni politiche in cui ero candidato alla Camera assieme al Senatore César Dujany. Legato a vicende politiche regionali, nacque il curioso asse dei partiti nazionali, che aveva fatto scendere in campo due competitori di peso: per Montecitorio il democristiano Augusto Fosson, per Palazzo Madama il comunista Giulio Dolchi. Noi avevamo le sole forze autonomiste, largamente perdenti sulla carta, anche se riuscimmo a rovesciare l'esito vincendo alla grande. Gli unici due esponenti nazionali che appoggiarono la linea regionalista furono Marco Pannella per i radicali (con un videomessaggio bilingue nel suo francese meraviglioso) e Giovanni Spadolini per i repubblicani, che venne di persona e tenne un comizio in piazza Chanoux.

Ricordo come - per marchiare in negativo questa alleanza antiautonomista - Spadolini, celebre anche come storico, usò in modo beffardo un celebre motto: «o Franza o Spagna, purché se magna», espressione attribuita al fiorentino (come lui!) Francesco Guicciardini, che era stato prima come ambasciatore di Firenze in Spagna presso la corte di Ferdinando il Cattolico e poi, tornato in patria, aveva propugnato un'alleanza con i francesi per fermare lo strapotere di Carlo V ed assicurare un po' di indipendenza alla penisola italiana. Nel Cinquecento erano queste le due grandi potenze europee, che fino alla metà del secolo successivo, svolsero un ruolo capitale e mutevole sul territorio italiano e la classe politica municipalistica "italiana" risultò incapace di guardare oltre i ristretti limiti del comune o della regione. Così governi locali, cedevano ora all'una ora all'altra potenza, pur di salvare un minimo di autonomia in modo opportunistico. L'espressione è diventata senza tempo nell'indicare un vizio italiano che fotografa un certo tipo di qualunquismo, menefreghismo e attitudine da voltagabbana. Chi abbia, come me, vissuto la politica italiana conosce bene questo comportamento e anche la politica valdostana, pure nell'area autonomista, non si è fatta mancare atteggiamenti riportabili a questo malvezzo con maggioranze regionali piuttosto eccentriche rispetto alle promesse elettorali fatte ai valdostani cinque anni fa. Penso che molti ne abbiano perfetta consapevolezza e se lo ricorderanno nelle urne, per quanto si cerchi di cancellarne le tracce. Lo stesso di questi tempi vale a Roma, dove i "Cinque Stelle" - primo partito italiano - dopo avere a lungo flirtato con la Lega si sono spostati, armi e bagagli, verso una possibile alleanza con il Partito Democratico, seguendo quella che lo stesso autocandidatosi premier Luigi Di Maio ha indicato come «una politica dei due forni». L'origine risale nel tempo, anche se poi l'utilizzo è stato plurimo da allora, al famoso leader democristiano Giulio Andreotti, quando si ritrovò a commentare, a distanza di anni, la fase storico-politica degli anni Sessanta, caratterizzata dalla centralità della DC. Ammise di artefice dell'idea che in quel momento il suo partito, per acquistare il pane (cioè fare la politica più congeniale ai propri interessi alleandosi con altre forze), dovesse servirsi di uno dei due forni che aveva a disposizione, a seconda delle opportunità: il forno di sinistra (socialisti), il forno di destra (liberali, eventualmente anche i missini). Politica comprensibile per certi versi, ma che si tinge di maggior spregiudicatezza quando, come nel caso attuale, il leader pentastellato (chissà Beppe Grillo come si muoverà da qui a poco, dopo avergli lasciato campo libero) è passato da uno schieramento all'altro nella speranza di salire a Palazzo Chigi o di dare un ruolo governativo forte alla sua forza politica. Sembra, anche in questa circostanza, che le cose dette e soprattutto scritte prima delle elezioni diventino un materiale duttile come la plastilina, manovrabile secondo gli scopi che si voglio raggiungere, come il grottesco esercizio che alcuni professori universitari pentastellati hanno fatto con un tabella che ho letto avidamente per dimostrare che "Cinque Stelle" e PD sono assolutamente compatibili rispetto ai proprio programmi elettorali in vista della eventuale firma di un contratto di Governo, nato come ricopiatura del ben diverso ordinamento della Germania. Vedremo cosa avverrà. Già in passato ho segnalato quel carattere italiano del trasformismo in politica come elemento che viene usato da secoli con un candore che spiazza. Anni fa, scrisse Saverio Vertone, politologo assai acuto, che passò senza colpo ferire da deputato del Partito Comunista a senatore di Forza Italia, per cui era davvero attendibile rispetto a certi andirivieni: «Siccome noi italiano abbiamo capito Machiavelli a rovescio, abbiamo aggirato la modernità grazie al machiavellismo, riuscendo a produrre una serie di mostri che oggi tendiamo a definire levantini e che sono invece solo italiani: come l'individualismo senza coscienza individuale, il nazionalismo senza coscienza nazionale, l'astuzia senza intelligenza, il liberismo senza mercato, il mercato senza concorrenza». Per poi finire, con una vena tragica: «uno Stato senza una Nazione e una Nazione senza Stato». Amen.