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30 apr 2018

Pensieri inquieti sul 25 Aprile

di Luciano Caveri

«La gente accorre, grida, sventola fazzoletti, piange, sorride. Questo sorriso, questo pianto di gioia, questo gridare ci accompagna: ci accompagnerà sempre come un incitamento, o un rimorso, come un sogno forse troppo bello per essere inserito e trasfuso nella prosaica realtà di tutti i giorni, ma che pure deve segretamente illuminare, in qualche modo, quel che di meglio è in ognuno di noi». Alessandro Galante Garrone

Il 25 Aprile è ormai una data che è come un'eco distante, seppellita in un'Italia senza memoria, com'era capitato prima per certe date risorgimentali. E fin qui non ci sarebbe da stupirsi: la conoscenza della Storia non è patrimonio comune ed il passato, per molti, è solo oblio avvolto in un'aurea confusa. Vengo da una famiglia che per molte ragioni (e per i tanti fratelli e sorelle di mio papà...) era stata antifascista senza "se" e senza "ma", per cui la Resistenza e la Liberazione sono sempre state un patrimonio comune, incrociatosi anche con la stagione di un riscatto autonomista della Valle.

Eppure, nelle discussioni conviviali che poi sono quelle che danno il polso dell'idem sentire, scopro una specie di buco nero su vicende che non sono di chissà quando, ma a un tiro di schioppo nel tempo. Per cui, pur cercando di fare del mio meglio per tener viva la fiamma e in politica l'ho sempre fatto, seguo con dispiacere questa deriva. Sapendo che il pericolo è che certi mostri tornino sotto nuove vesti, perché le svolte autoritarie possono aggredire le democrazie, quando sono rimaste fragili. Se si trattasse solo di questo ci si potrebbe quasi rassegnare, pur restando vigili. Di recente ho letto, perché in una giuria, dei temi di giovani dal curriculum piuttosto solido, ma sui fatti valdostani di settant'anni fa ho colto zone nebbiose e smemoratezze che saranno pure una colpa loro, ma la colpa è anche nostra se abbiamo dato per scontato che certe vicende sarebbero rimaste scolpite in modo imperituro, invece finiscono per essere annacquate se nessuno le insegna a dovere o se, peggior ancora, manca la curiosità intellettuale per scavare in certe radici. Ma esiste un "ma", che tinge di scuro l'intero scenario. Inutile contarsi storie: un conto è il lavoro degli storici che nel tempo hanno piano piano rivelato lo scenario più vasto del fenomeno resistenziale, culminato nel 25 Aprile. Era giusto ed ovvio che certi orpelli retorici, perché la Storia la scrivono i vincitori, dovessero cedere il passo a ricostruzioni più ruvide nei loro contenuti, perché nella lotta partigiana non tutto è stato "rose e fiori". Ma questo non ha nulla a che fare con il negazionismo ed il revisionismo, quando utile per dire che certi fenomeni sono un falso (l'esempio più chiaro è chi nega l'Olocausto) o che il Fascismo «ha fatto cose buone», per non dire di chi inneggia ormai spudoratamente per il Duce. Schifezze, certo, ma gli schizzi di frango si avviluppano in chi non conosce e finisce per balbettare lui stesso ragioni di nostalgia e ricostruzioni storiche prive di qualunque senso. In un Paese civile ogni rigurgito fascista e persino filonazista sarebbe stato soffocato nelle patrie galere ed invece dal dopoguerra in poi è scattato il perdono e la tolleranza nel nome della "libertà di espressione" e che la Costituzione diventi strumento ad uso dei malvagi fa accapponare la pelle e indigna. Roba da chiedere al Signore di far risorgere alcuni capi partigiani come figure carismatiche contro certe mozzarelle mollicce. Colpa anche di una certa Sinistra, che mischia la Resistenza con vicende storiche attuali, per cui i centri sociali giocano agli antifascisti militanti mettendo a ferro e fuoco le città e questo senza alcuna giustificazione, come accade anche con il paradosso che le dolorose vicende palestinesi finiscano per servire alle più bieche derive dell'antisemitismo e dell'antisionismo. In anni passati, e per molto tempo, ho collaborato con l'"Anpi", l'associazione partigiani che aveva una forte impronta pluralista per via delle diverse anime della Resistenza, fenomeno che oggi tende a finire con una politicizzazione di parte - non parlo del caso valdostano, naturalmente - che più che aprire al dialogo, alza degli steccati su quello che dovrebbe essere un elementare patrimonio comune. Di questo in Italia approfittano i cattivi, come si vede con sindaci neofascisti che negano piazze e manifestazioni e danno spazio a chi inneggia al Ventennio. Così, in questa confusione, fra aggressività dell'estrema destra nostalgica e l'ignoranza di chi si costruisce la storia "fai da te", fra settarismo che fa male ai valori resistenziali e rilettura stravolgente di vicende e personaggi storici, il 25 Aprile diventa una data buona per fare i ponti, ormai legata a manifestazioni declinanti di circostanza e perde di anno in anno quell'energia che io ho conosciuto da ragazzo, quando i partigiani ancora viventi raccontavano con semplicità e antiretorica la loro scelta. Quella scelta che, dopo la vergogna del regime liberticida della dittatura mussoliniana e l'abbraccio con i nazisti, consentì all'Italia - al cospetto del mondo - di avere ancora, pur uscita perdente dal Secondo conflitto mondiale, una sua residua credibilità. Se non si può pensare a fanfare, sfilate e deposizioni di corone d'alloro come fenomeno popolare pensando alle festività di Stati come Francia, Stati Uniti o Svizzera, almeno si eviti di lerciare il 25 Aprile. Già questo basterebbe a vergognarci meno di certa indegnità galoppante verso chi ci ha preceduto.