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26 gen 2018

Una bambina ebrea, Auschwitz, Senatrice...

di Luciano Caveri

Ho pensato a mio papà che ad Auschwitz ci passò un periodo come internato assieme ad altri suoi coetanei caricati su di una tradotta ad Aosta nel maggio del 1944: aveva vent'anni quando scoprì in poco tempo cosa fosse quel gran campo ricolmo di prigionieri con una divisa bianca e nera. Erano prevalentemente ebrei che vivendo lì segregati fra mille stenti in quel campo di sterminio, perché Adolf Hitler ed il suo Nazismo volevano cancellare quel popolo dalla faccia della terra. Piano finale di un antisemitismo antico, che ancora oggi torna in superficie come una malapianta. "Sandrino" - così chiamato per la sua piccola altezza e l'aria sorridente - capì che quei camini erano in funzione perché bruciavano i corpi dei prigionieri gassati. Io più di una volta sono stato in quel campo, oggi in territorio polacco, all'epoca zona occupata dalla Germania, e ci ho portato i miei figli «per non dimenticare».

Ho pensato a mio papà, che nella vita si portò i fantasmi di quella brutta storia cui riuscì a sfuggire per una coraggiosa fuga, quando ho saputo della decisione del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, di fare Senatore a vita una donna sfuggita all'Olocausto. Così ha scritto l'"Ansa": "Liliana Segre, 88 anni, è nata a Milano il 10 settembre del 1930 in una famiglia ebraica laica, figlia di Alberto e Lucia Foligno, che muore quando lei ha meno di un anno. Una ragazza italiana come tante su cui nel 1938 si abbatte la violenza vergognosa della discriminazione razziale. Da allora nulla sarà come prima per tanti ebrei italiani come Liliana, che ad otto anni viene espulsa dalla scuola. Alla discriminazione segue la persecuzione. Nei primi giorni del dicembre del 1943, Segre con il padre e due cugini prova a scappare in Svizzera. «Fu la prima volta che sentii questa parola: "scappare". Scappare - ha raccontato nel "Libro della Shoah italiana" di Marcello Pezzetti ("Einaudi") - è così terribilmente negativo come termine... è un ladro che scappa, è qualcuno inseguito che scappa. Beh, noi non eravamo ladri, ma certamente eravamo inseguiti». Catturata dai gendarmi svizzeri, viene rispedita in Italia: arrestata, è richiusa prima nel carcere di Varese, poi in quello di Como e infine a Milano, a San Vittore, dove rimane per quaranta giorni. Nel gennaio successivo viene consegnata alle "SS" e deportata con il padre in Germania: internata nel campo di sterminio di Birkenau-Auschwitz, è rinchiusa nella sezione femminile insieme ad altre settecento ragazze e 60mila donne di tutte le nazionalità. Le viene imposto un numero di matricola tatuato sul braccio (75190): non ha ancora quattordici anni. Il padre viene ucciso il 27 aprile del 1944. Nel 1945 i nazisti, in fuga dall'avanzata dell'Armata Rossa, sgombrano il campo trasferendo verso la Germania Liliana e altri 56mila prigionieri nella terribile "marcia della morte". Internata prima nel campo femminile di Ravensbruck e poi in quello di Malchow, nel nord della Germania, la ragazza italiana viene liberata dai sovietici il 30 aprile del 1945. Dei 776 bambini italiani di età inferiore ai quattordici anni deportati ad Auschwitz, la Segre è tra i soli venticinque sopravvissuti. Rientra a Milano nell'agosto del 1945. Ci sono voluti 45 anni a Liliana per "rompere il silenzio" sulla "Shoah", come è accaduto a molti sopravvissuti: solo nel 1990 comincia a raccontare incontrando studenti e professori". Non è certo un caso che il Capo dello Stato abbia voluto ricordare, tramite lei, gli ottant'anni delle vergognose leggi razziali in un'epoca in cui negazionismo della "Shoah" e revisionismo storico su fascismo e nazismo fanno ribrezzo. Traggo un brano dal suo libro "Fino a quando la mia stella brillerà", che vale più di molte mie parole: «Ad Auschwitz superai la selezione per tre volte. Quando ci chiamavano sapevamo che era per decidere se eravamo ancora utili e potevamo andare avanti, o se eravamo vecchi pezzi irrecuperabili. Da buttare. Era un momento terribile. Bastava un cenno ed eri salvo, un altro ti condannava. Dovevamo metterci in fila, nude, passare davanti a due "SS" ed a un medico nazista. Ci aprivano la bocca, ci esaminavano in ogni angolo del corpo per vedere se potevamo ancora lavorare. Chi era troppo stanca o troppo magra, o ferita, veniva eliminata. Bastavano pochi secondi agli aguzzini per capire se era meglio farci morire o farci vivere. Io vedevo le altre, orrendi scheletri impauriti, e sapevo di essere come loro. Gli ufficiali e i medici erano sempre eleganti, impeccabili e tirati a lucido, in pace con la loro coscienza. Era sufficiente un cenno del capo degli aguzzini, che voleva dire "avanti", ed eri salva. Io pensavo solo a questo quando ero lì, a quel cenno. Ero felice quando arrivava, perché avevo tredici anni, poi quattordici. Volevo vivere. Ricordo la prima selezione. Dopo avermi analizzata il medico notò una cicatrice. "Forse mi manderà a morte per questa..." pensai e mi venne il panico. Lui mi chiese di dove fossi e io con un filo di voce ma, cercando di restare calma, risposi che ero italiana. Trattenevo il respiro. Dopo aver riso, insieme agli altri, del medico italiano che mi aveva fatto quella orrenda cicatrice, il dottore nazista mi fece cenno di andare avanti. Significava che avevo passato la selezione! Ero viva, viva, viva! Ero così felice di poter tornare nel campo che tutto mi sembrava più facile. Poi vidi Janine. Era una ragazza francese, erano mesi che lavoravamo una accanto all'altra nella fabbrica di munizioni. Janine era addetta alla macchina che tagliava l'acciaio. Qualche giorno prima quella maledetta macchina le aveva tranciato le prime falangi di due dita. Lei andò davanti agli aguzzini, nuda, cercando di nascondere la sua mutilazione. Ma quelli le videro subito le dita ferite e presero il suo numero tatuato sul corpo nudo. Voleva dire che la mandavano a morire. Janine non sarebbe tornata nel campo. Janine non era un'estranea per me, la vedevo tutti i giorni, avevamo scambiato qualche frase, ci sorridevamo per salutarci. Eppure non le dissi niente. Non mi voltai quando la portarono via. Non le dissi addio. Avevo paura di uscire dall'invisibilità nella quale mi nascondevo, feci finta di niente e ricominciai a mettere una gamba dietro l'altra e camminare, pur di vivere. Racconto sempre la storia di Janine. E' un rimorso che mi porto dentro. Il rimorso di non aver avuto il coraggio di dirle addio. Di farle sentire, in quel momento che Janine stava andando a morire, che la sua vita era importante per me. Che noi non eravamo come gli aguzzini ma ci sentivamo, ancora e nonostante tutto, capaci di amare. Invece non lo feci. Il rimorso non mi diede pace per tanto, tanto tempo. Sapevo che nel momento in cui non avevo avuto il coraggio di dire addio a Janine, avevano vinto loro, i nostri aguzzini, perché ci avevano privati della nostra umanità e della pietà verso un altro essere umano. Era questa la loro vittoria, era questo il loro obiettivo: annientare la nostra umanità».