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29 nov 2017

I pochi stellati valdostani

di Luciano Caveri

Mangiare e bere sono una necessità fisiologica che, per fortuna, può trasformarsi in uno dei piaceri della vita. Mi è già capitato di citare, perché specchio della vita sociale, la frase del celebre Pellegrino Artusi: «Il mondo ipocrita non vuol dare importanza al mangiare; ma poi non si fa festa, civile o religiosa, che non si distenda la tovaglia e non si cerchi di pappare del meglio». Verissimo: scorrete la vostra agenda dei prossimi mesi e, accanto alle feste comandate, ci sono certamente appuntamenti familiari o amicali in cui non si sfugge al momento conviviale. Guardando la programmazione televisiva, abbiamo oggi conferma che certa ipocrisia non abita più qui, visto il proliferare di trasmissioni di cucina in un filone di evidente successo di ascolti e il fatto che gli Chef sono diventati icone vere e proprie, tanto da fare esplodere gli iscritti alle scuole alberghiere, un tempo reputate ingiustamente scuole di second'ordine.

Personalmente sono curioso della buona cucina e onnivoro nell'affrontarla, considerando che ci dev'essere sempre una buona cantina e lo dico con viva simpatia per vegani ed astemi. Trovo che su questo desiderio di provare - e non soggiacere alla cattiva tentazione di tornare sempre negli stessi posti come dei travet - si debba essere onesti: la qualità si paga e dunque le eccellenze fanno sempre male al portafoglio, ma è corretto avere un atteggiamento che tenga sempre conto proprio del rapporto fra prezzo e qualità, dalle materie prime al servizio, e questo vale dal panino al piatto sopraffino. Sfamarsi, comunque, è diverso dal piacere della tavola. Uno degli aspetti singolari degli anni che passano è che si assiste anche alla moria dei ristoranti e alla loro nascita. Mi capita ogni tanto con gli amici di fare la lista del cimitero dei ristoranti valdostani del tempo che fu e, per contro, purtroppo più raramente, di dare il benvenuto a nuove strutture con persone che si investono con coraggio. L'ultimo della serie è il fu "Da Pierre" a Verrès, dove un giovane già esperto - Rudy Sarteur - ha avviato il promettente "Tanpì". L'altro giorno guardavo le nuove "Stelle Michelin" per il 2017. Credo che quasi tutti sappiano di che cosa si tratta. Lo ricordo brevemente: la "Stella Michelin" è un segno distintivo delle migliori realtà ristorative adottato dal 1926 dalla famosa casa produttrice di pneumatici, per recensire i ristoranti ed inserirli come consigli utili durante il viaggio. E' un riconoscimento di prestigio attribuito dagli ispettori de "La Rossa" (anche così chiamata in gergo giornalistico) ai ristoranti giudicati migliori da uno a tre stelle: con una stella la cucina è di buon livello, tradizionale, ma si sente la mano dello chef, la sua creatività. Due stelle indicano una cucina che è già ad un livello molto alto, in cui la fa da padrone l'espressione dello chef e vale una deviazione per andarci. Con tre stelle si tratta assolutamente di un grande ristorante in ci si aspetta la perfezione in ogni dettaglio e ci si deve andare appositamente, perché vale la pena. Ciò è frutto del giudizio - dovuto ad una visita che dovrebbe essere anonima - dell'ispettore Michelin, che si occupa della materia prima, delle cotture, del giusto equilibrio tra gli ingredienti, della creatività dello chef, la rivisitazione delle ricette, del giusto rapporto qualità/prezzo. Naturalmente contano anche il servizio, l'atmosfera, gli arredi e la location. Ebbene l'altro giorno ho fatto un post su "Twitter" segnalando l'importanza dei ristoranti stellati e una mia follower, Alessandra Guigoni, ha così interloquito: «Il turismo stellato italiano produce trecento milioni di euro l'anno. Alcuni ristoranti sono una destinazione turistica di per sé, gli chef possono essere anche ambasciatori di produzioni locali, e fare cultura ed economia. Semplice, ma mica tutti capiscono». Condivido l'osservazione finale e - tenuto conto naturalmente delle diverse dimensioni e popolamento - il confronto fra il solito Trentino-Alto Adige/Südtirol e la Valle d'Aosta è per noi perdente. Cominciamo da loro che sono in crescita: nella Provincia Autonoma di Bolzano ci sono diciotto chef stellati e ventitré stelle (cinque ristoranti hanno due stelle, tredici ne hanno una), nella Provincia Autonoma di Trento ci sono sei chef stellati e sette stelle (un ristorante ha due stelle, gli cinque altri una stella). In Valle d'Aosta siamo in discesa: restano solo tre ristoranti con una stella ("Vecchio ristoro" ad Aosta con lo chef Alfio Fascendini, "Le Petit Restaurant" di Cogne con Fabio Iacovone e "La Clusaz" di Gignod con Maurizio Grange), escono per ristrutturazione del locale ancora in corso il "Café Quinson" di Morgex e per cambio di chef il "Petit Royal" di Courmayeur. Credo che ci sia molto da lavorare e ci siano spazi importanti che possano essere riempiti con buona pace dei gourmet.