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07 ott 2017

La "désarpa" non è solo folklore

di Luciano Caveri

Ne ho una memoria vivida: ero piccolo, sentivo il rumore dei campanacci e dunque della mandria in avvicinamento, uscivo con la mamma nel vialetto di casa. Era la "désarpa": la discesa delle mucche dall'alpeggio. Gli allevatori mi salutavano con la mano. Molti di loro nel tempo sarebbero diventate figure familiari e per loro ero il «figlio del Veterinario», figura significativa nel mondo contadino. Per altro mio papà, uomo rigoroso nel lavoro, sempre disponibile a tutte le ore, aveva anche un carattere scherzoso e gioviale con tutti e sapeva anche aiutare le persone che avevano bisogno. Trovo ancora oggi molti che mi raccontano aneddoti molto divertenti e anche testimonianze del suo attaccamento a quel mondo. Papà, a dire la verità - scusate la digressione - aveva cominciato Giurisprudenza dando alcuni esami, ma poi nel 1944 venne internato con agli valdostani nei campi di internamento, stando anche ad Auschwitz per alcuni mesi. Quando rientrò disse al papà che non se la sentiva più, perché non credeva nel Diritto dopo quello che aveva visto. Non c'erano soldi per studiare Medicina, ripiegò su Veterinaria e fu la sua vita ed anche la possibilità per la sua famiglia di conoscere quel mondo in cui lavorava ogni giorno sino all'esaurirsi della sua esistenza.

Anche per questo sono sempre rimasto colpito dai momenti della vita rurale della nostra Valle, che ha conformato il territorio della Valle e il carattere della sua popolazione, anche se ben sappiamo quanto sia stato declinante il peso economico e sociale dell’agricoltura con le trasformazioni, specie del dopoguerra. Tant'è che - ognuno al suo punto di vista - fa impressione una lettura minuta delle materie del nostro vigente Statuto d'Autonomia, che corrisponde in molti passaggi a quel mondo in cui l'agricoltura aveva ancora un peso preponderante. E bisogna fare attenzione che il declino del suo ruolo non scenda sotto alcuni livelli di guardia. L'altro giorno, un mio amico ricordava che i famosi "contributi" andrebbero opportunamente chiamati - per evitare che si pensi a chissà quale "albero della Cuccagna" - come "fondi compensativi". Servono infatti a compensare quella differenza in negativo che chi opera in zona montana ha verso l'agricoltura e l'allevamento di pianura, perché senza quella opera di aggiustamento e di eguaglianza resta inteso che tutto potrebbe scomparire nel nome della ferocia della concorrenza. Ecco perché è necessario che molti momenti di festa, come le "batailles de reines" e la "désarpa" (in questi giorni ci sono manifestazioni a Valtournenche ed a Cogne), ma anche scelte giuste come "Alpages ouverts" che offrono uno spaccato gioioso della vita sui pascoli più alti della Valle, ci stiano assolutamente per illustrare l'attività dei nostri campagnards. Ma vale in questo caso come un altro un'importante sottolineatura: da una parte non cadere nella trappola che sia tutto oro quel che luccica e, dall'altro, evitare che sia il solo folklore. Scrive Alan Dundes sulla voce della "Treccani": «Il termine "folklore" designa sia un complesso generico di materiali della tradizione (miti, leggende popolari, racconti, proverbi, indovinelli, superstizioni, giochi, eccetera) trasmessi oralmente o con l'esempio da persona a persona, sia lo studio scientifico di tali materiali.Il termine venne coniato dall'inglese William Thoms (1803-1885) in una lettera scritta sotto lo pseudonimo di Ambrose Merton a "The Athenaeum" il 22 agosto 1846. Thoms, che nel 1849 fondò la rivista "Notes and queries", proponeva di utilizzare il nuovo termine al posto di "antichi usi e costumi popolari" o di "letteratura popolare". Mettendo in rilievo come il suo neologismo avesse il merito di essere un "autentico sostantivo composto sassone", Thoms evidenziava lo stretto rapporto sussistente tra l'interesse per il folklore e un acceso nazionalismo. Questo stesso atteggiamento nazionalistico, peraltro, ha scoraggiato l'uso del termine inglese da parte di studiosi di altre nazioni. I Francesi preferiscono l'espressione "traditions populaires", gli Spagnoli "tradiciones populares", gli Italiani "tradizioni popolari" (sebbene il grande studioso siciliano Giuseppe Pitrè - 1841-1916 - proponesse il termine "demopsicologia" nella celebre prolusione tenuta nel 1911 all'Università di Palermo. I Tedeschi privilegiano il vocabolo "volkskunde", che venne coniato prima dell'inglese folklore, a quanto pare già nel 1782, mentre gli Scandinavi adottano variazioni locali del termine "folkeminder" o "folklivsforskning" (che può essere tradotto all'incirca come "studio della vita popolare"). Per quanto ogni nazione e comunità linguistica abbia i propri termini specifici, l'inglese folklore si è gradualmente imposto a livello internazionale - anche se nei paesi di lingua romanza persiste una certa resistenza linguistico-nazionalistica nei confronti della grafia col "k" anziché con il "c". Il passaggio da questa forma di nazionalismo linguistico all'adozione internazionale del termine folklore è stato lento ma costante, come attesta il mutare dei titoli nei vari periodici dedicati alla materia». Oggi tendiamo in effetti a dare a folklore una chiave di lettura che ne denota il rischio di superficialità: le discipline umane scavano più in profondità nella dimensione antropologica, fatta di aspetti storici, culturali, biologici. Così certi usi, costumi, tradizioni, modi di vivere sono la punta di un iceberg, che dovrebbe - per chi lo vuole - mettere curiosità, perché dietro a certe celebrazioni, come la "désarpa" e le "batailles", non c'è solo una pratica antica di allevamento stagionale e di interazione fra uomo e animale, ma ci sono visioni del mondo, pur in continua trasformazione. Mai fermarsi alle sole apparenze.