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26 apr 2017

Le ipocrisie sulla Turchia

di Luciano Caveri

So bene quanto scrivere sia rischioso come maneggiare un'arma a doppio taglio, perché - anche ad anni di distanza - qualcuno può rimproverarti, recuperando qualche pensiero espresso in passato e messo nero su bianco, di avere cambiato opinione. Su questo non c'è un diritto all'oblio che tenga, ma forse la considerazione più terra a terra, perché, come diceva James Russel Lowell, «solo i morti e gli stupidi non cambiano mai opinione». Ciò detto mi fa piacere che, rileggendomi, trovo spesso delle certezze nel mio modo di pensare, che dimostrano l'esistenza di un filo conduttore.

Scrivevo nel 2010: «Sono sempre stato e resto contrario all'ingresso della Turchia nell'Unione europea. Lo sono stato quando la Turchia era davvero sulla soglia e sarebbe bastato un nonnulla per chiudere la partita e ritrovarsi i turchi cittadini europei. La contrarietà è semplice: la Turchia non è geograficamente in Europa, la sua popolazione non ha cultura europea, il precedente allargherebbe a dismisura l'Europa. Oltretutto la Turchia ha avuto atteggiamenti con il popolo curdo di palese violazione di quei diritti umani caposaldo dell'appartenenza europea». Erano gli stessi anni in cui Silvio Berlusconi si sbilanciava con dichiarazioni di questo tipo: «L'Italia ha riaffermato il suo impegno a sostenere la prospettiva della piena adesione della Turchia all'Unione Europea». Inutile aggiungere altro, se non che Matteo Renzi solo un annetto fa ribadiva anche lui una sua apertura: «Bisogna rilanciare il processo di avvicinamento della Turchia all'Unione europea». Ora, invece, vedo moltissime retromarce - spesso davvero tardive - nei confronti del presidente ora anche premier, Recep Tayyip Erdogan, che ha continuato nel tempo a dare al suo Paese un svolta autoritaria e cesaristica, raggiungendo l'apice con il recente referendum costituzionale. Lo ha vinto per il rotto della cuffia e con brogli elettorali, denunciati dagli osservatori internazionali che hanno monitorato il voto. Ma questa constatazione conterà poco in un Paese vittima di un regime liberticida e ambiguo nel suo islamismo apparentemente moderato, ma che in realtà sta buttando via quella logica di uno Stato laico voluta dal padre della Turchia moderna, Mustafa Kemal Atatürk. Ora si scopre anche in Italia che nel mirino di una dittatura, purtroppo a suffragio universale, ci son o da tempo i giornalisti ed il bubbone ben noto scoppia a causa della detenzione del reporter italiano, Gabriele Del Grande, fermato dalle autorità turche il 10 aprile mentre faceva il suo lavoro. E - lo dico a chi eccepisce sulla pericolosità in cui si è scientemente ficcato - che uno venga rapito in Paesi senza legge da bande armate darebbe loro ragione, ma non va bene che un arresto arbitrario avvenga in uno Stato che fa parte del "Consiglio d'Europa" (di cui io sono stato membro) e ciò obbligherebbe il Governo turco al rispetto di una serie di parametri democratici, in realtà ormai saltati. C'è poco da stupirsi dopo le periodiche e generalizzate purghe del nuovo Califfo, che ha epurato ogni dissidente e certo non vuole giornalisti in giro, perché le dittature sono per ovvie ragioni contrarie alla libertà di informazione, già difficile nelle democrazie mature. In Italia e in Europa scema finalmente il clamore dei favorevoli a rapporti più stretti per giungere all'adesione all'Unione Europea: questo è un fatto positivo, anche se - abbassata l'attenzione - certe enormi spinte generate dagli interessi di molti business torneranno sulla scena. Ma nel frattempo la macchina dittatoriale è in moto e la logica di rottura con l'Europa, diventata nemica giurata, è tutta in quella definizione da comizio di bassa lega che ha visto Erdogan gioire per i pieni poteri ottenuti «contro i crociati», che immagino siamo sempre noi Occidentali infedeli. Per cui va bene tenere aperte le porte del dialogo, ma l'Europa - con tutti i suoi difetti - siamo noi.