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26 mar 2017

Non spegnere il federalismo

di Luciano Caveri

Il federalismo è stato per molto tempo una marca del dibattito politico valdostano dal secolo scorso a quello attuale e ciò è avvenuto per una serie di elementi particolari che hanno fatto da lievito. In soldoni la vicinanza con la Svizzera, l'impronta culturale dell'ambiente federalista torinese, la capacità locale di contatti con esponenti del federalismo personalista. Tutto per rispondere ad una speranza di autogoverno. Io stesso ne ho spesso scritto nel solco di questa impronta che aveva caratteristiche singolari, che ho riportato - quando necessario - laddove mi capitava di dover intervenire, comprese le Assemblee parlamentari di cui ho fatto parte, che sono poi state cinque: Camera dei deputati, Parlamento europeo, Consiglio d'Europa, Consiglio Valle e "Comitato delle Regioni".

Ho lasciato così molte tracce di questo segno federalista, che ha visto anche, per una quindicina d'anni, un lavoro parlamentare - per fortuna resocontato - in quella stagione delle riforme in Italia che un pochino guardò al federalismo, accantonato poi con brutalità nella riforma renziana della Costituzione, per fortuna bocciata dal popolo con il referendum confermativo. Ma il confronto avvenuto in quella recente campagna referendaria ha confermato come ormai il federalismo fosse di fatto finito in soffitta e persino abiurato da chi - penso a esponenti importanti del Partito Democratico - nel 2001 avevano varato quella riforma del Titolo V della Costituzione, che poteva apparire come una pur ancor timida svolta verso un'Autonomia regionale ai confini di un agognato federalismo. Invece, la controriforma renziana era - sul punto di uno Stato più centralista e pesantemente ostile al ruolo della democrazia locale - purtroppo piuttosto condivisa. Un marker evidente era la comunanza di posizioni fra esponenti dei Comitati del "sì" e del "no" sull'abolizione in futuro delle Speciali, apparentemente salvate dalla riforma, ma lo erano state solo - come detto con chiarezza da personalità come Luciano Violante - perché senza il voto al Senato di sudtirolesi, trentini e valdostano a Palazzo Madama la riforma non sarebbe passata. Ora di riforme non si parla più, ma guardando allo scenario della politica italiana c'è poco da stare allegri e il tema di quale forma di Stato per l'Italia si porrà di nuovo e sarebbe bene pensare a quale strategia adottare a difesa dell'Autonomia speciale e per rilanciare quel federalismo senza più difensori (la Lega ormai è su posizioni nazionaliste con alleati in Europa antifederalisti), che rischia di essere solo appannaggio di piccoli gruppi élitari che si rifanno più a un vago federalismo europeo che a un federalismo per l'Italia. Mi ha fatto venire il latte ai gomiti il finale dell'editoriale, pubblicato due giorni fa su "La Repubblica", di Eugenio Scalfari, che riferisce di un colloquio con Matteo Renzi, in cui - tra l'altro - il politico fiorentino ha detto, virgolettato rispetto alle future elezioni politiche: «Certamente desidero vincere ma non è detto che voglia ridiventare presidente del Consiglio. Forse sarebbe meglio che restassi alla guida del partito e della sinistra in Italia e soprattutto in Europa. Vedrò». Roba da Carlo Collodi con il suo "Pinocchio" e, visto che Scalfari suggerisce al giovin signore persino le letture (Francesco De Sanctis, Machiavelli, Giambattista Vico...), potrebbe consigliarglielo perché libro assai istruttivo. Ma il finale di cui dicevo è ancora più risibile: «Ci siamo salutati con la parola "Ventotene", sia per la scuola dedicata ai giovani sul "Manifesto di Spinelli" sia per gli ideali europeisti da realizzare». Renzi ama sbandierare Ventotene, ma poi nelle stesse ore trafficava per le nomine dei suoi amici nelle Partecipate dello Stato, altro che le buone letture colte suggeritegli appunto dal buon Scalfari per elevare il suo spessore culturale! Si ricordi come nel dibattito italiano sulle riforme proprio lui - quando era ancora Premier prima della batosta referendaria, che sembra essere stata inutile - avesse fatto approvare a colpi di maggioranza una riforma centralista con meccanismi autoritari che di federalismo non hanno neppure un milligrammo. Purtroppo questa assenza di una speranza federalista appare anche nel resto dello schieramento politico: dai pentastellati alle varie Destre e pure nella Sinistra giacobina e ciò avviene nella confusa situazione romana. Che fare? Restare coerenti con le proprie idee, coltivare il federalismo come base su cui costruire una cultura politica e una buona Amministrazione locale, cercando in Italia e in Europa energie con cui fare sistema per il rilancio dell'Autonomia speciale, risollevandola da quella immagine negativa in cui è precipitata e riportandola a livelli di efficienza ormai perduti. Sapendo che un giorno la "rivoluzione federalista" avrà le sue chances.