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26 feb 2017

I tabù della Storia

di Luciano Caveri

Non devono esistere tabù nella lettura della Storia passata. Se non altro per buonsenso, visto quanto osservava giustamente Miguel de Cervantes: «La storia è madre della verità, emula del tempo, depositaria delle azioni, testimone del passato, esempio e annuncio del presente, avvertimento per il futuro». Per dire ecco tre casi riguardanti la Valle d'Aosta in cui va bene essere espliciti: chi esalta i tre "Régiments des Socques" in Valle d’Aosta (1799, 1801 e 1853) non può non rilevare che dietro certe insorgenze contadine ("socques" sono gli zoccoli ai piedi) esistevano elementi conservatori e retrivi; oppure non è insultare Emile Chanoux se si segnala la scarsa qualità e stridori di certe sue produzioni letterarie; neppure è lesa maestà segnalare - come ha fatto - Angelo D'Orsi, professore torinese - certe aderenze accademiche con il mondo fascista di Federico Chabod.

E potrei fare altri esempi e non si tratta di revisionismo storico "scorretto" (tipo chi nega l'Olocausto o esalta i Borboni rappresentando i Savoia come affamatori di un Sud straricco), ma di prendere atto come è normale che ci siano nel tempo riletture che fanno chiarezza su alcuni elementi, rompendo anche elementi errati o che mutano con l'avanzare delle ricerche. Leggevo perciò con curiosità un articolo di Francesca Gonzato su "Alto Adige", che faceva la cronaca delle celebrazioni, con la presenza del presidente della Provincia autonoma di Bolzano, Arno Kompatscher, riguardanti un mito della storia sudtirolese, Andreas Hofer, che fu comandante supremo della sollevazione dei tirolesi del 1809 contro i bavaresi ed i francesi e venne fucilato a Mantova 207 anni fa. Scrive la giornalista: «Si può celebrare Andreas Hofer, cogliendone luci e ombre? Si può fare un passo avanti, senza passare per eretico della Heimat. Kompatscher ha deciso che è arrivato il tempo. Hofer è il tirolese per eccellenza, nel suo amore per la propria terra e l'autogoverno. Ma è stato anche un conservatore di ferro, avversario delle idee illuministe. Si può seguire la tradizione, senza chiudersi al nuovo. Questo in sostanza il messaggio di Kompatscher». Segue un'intervista che trascrivo per il suo interesse, precisando che il presidente quarantenne è assai discusso nella sua Provincia, anche perché ha avuto la difficile eredità da un caposaldo della politica sudtirolese del dopoguerra, quel Luis Durwalder - mio amico - che ha governato, con una presenza indelebile, dal 1989 al 2014. Ha detto Kompatscher: «Ho voluto porre alcune domande, perché queste cerimonie non diventino un appuntamento solo formale, ripetitivo». Ed ha aggiunto alla giornalista: «Ogni anno noi sudtirolesi ci troviamo per ricordare la figura di Hofer. E' naturale che la cerimonia assuma una cornice politica. E allora ho posto una serie di domande, che ritengo importanti. Perché ricordiamo ogni anno Hofer? Per il suo atteggiamento di chiusura verso il nuovo, verso le idee illuministe? Non credo. Lo ricordiamo, dovremmo ricordarlo, perché incarna un atteggiamento tipicamente tirolese di rifiuto delle imposizioni dall'alto, il non voler subire ciò che viene deciso altrove. Dal 1511 i tirolesi hanno espresso un bisogno di autogoverno, chiamiamolo così. "Pensiamo noi al nostro territorio”. La nostra visione è ancora questa. L’autogoverno». Poi un passaggio in cui mi riconosco: «Rinchiudersi come se fossimo chiocciole che si portano al seguito la propria casa non va bene. Nella chiusura non c'è libertà. Dobbiamo essere radicati nella tradizione e aperti verso il nuovo. Mi piace uno sguardo europeo. Ripeto, se ci si rifugia nel proprio guscio non c'è nessuna libertà. Per questo motivo pur restando fedeli alle nostre radici e alle nostre tradizioni, vogliamo essere consapevolmente aperti e tolleranti». C’è il rischio infatti di masticare sempre gli stessi temi e gli stessi argomenti e che il mondo autonomista sia sempre visto come qualcosa di vintage e certi discorsi siano null'altro che una sorta di film in bianco e nero di cui venga fatto il remake a colori. Ognuno, invece, dev'essere figlio del proprio tempo e far finta invece che sia tutto fermo ed immobile rischia di fare di certa politica una sorta di visione folkloristica e museale. Invece - vivaddio! - siamo vivi e vegeti e compartecipiamo ai cambiamenti epocali, senza doverci far travolgere perché considerati anacronistici ed inerti in una difesa passatista di quanto, invece, si modifica sotto i nostri occhi. Spetta a chi vive la contemporaneità cavalcare le sfide e non subirle.