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27 dic 2016

Quando la parità è linguistica

di Luciano Caveri

Non ho mai avuto il benché minimo dubbio sull'assoluta parità - ciascuno con proprie doti da mantenere - fra uomo e donna. Per non passare fittiziamente per un esempio fulgido di "politicamente corretto", preciso che è pur capitato anche a me in compagnia di pronunciare battute veteromaschiliste, che fanno parte, anche se non è una buona giustificazione, dell'indole delle generazioni cui appartengo. Per altro mi pare che un certo gioco della parti scherzoso e innocuo, tipo cane e gatto, sussista anche nei giovani, come mostra la coppia dei miei figli più grandi e quasi coetanei che sulle rispettive caratteristiche maschili e femminili si sfottono più o meno amabilmente.

Ma certo mio uso della battuta, per altro ereditata da mio papà (e più invecchio e più me lo ritrovo incollato addosso), non ha mai intaccato le mie convinzioni nella vita privata e in quella pubblica sul fatto che i due sessi abbiano pregi e difetti in egual misura e che l'eguaglianza (che è concetto più chiaro di "pari opportunità") sia un principio non derogabile e da perseguire. E provo orrore per la recrudescenza di comportamenti in quella parte di mondo dove la donna vive soggiogata, come dimostrato dalla ferocia degli islamisti e pure da certa cultura islamica tout court. Mentre da noi ripetuti fatti di sangue verso le donne mostrano con triste evidenza come molta strada debba essere percorsa. Per cui fa davvero sorridere la recente polemica lessicale, che in realtà è viva da qualche tempo, sull'uso delle parole al femminile. A innescarla è stato il Presidente emerito della Repubblica, Giorgio Napolitano, rivolgendosi al nuovo ministro Valeria Fedeli (quella non laureata): «Valeria non si dorrà se insisto in una licenza, quella di reagire alla trasformazione di dignitosi vocaboli della lingua italiana nell'orribile appellativo di "ministra" o in quello abominevole di "sindaca"». Tutto questo - e penso non a caso - di fronte alla presidente della Camera Laura Boldrini, paladina - in verità sempre con quel suo tono dolente - di questa guerra all'uso al maschile di certe parole. Ha scritto Paolo Di Stefano sul "Corriere della Sera": "Perché infermiera sì e ingegnera no? Perché sarta sì e ministra no? Nell'onda dei ripetuti inviti dell’Accademia della Crusca, anche Laura Boldrini, in questi anni, non ha smesso di insistere sulla necessità di rispettare il genere grammaticale anche per i titoli professionali e i ruoli istituzionali. Quella che oggi è per (quasi) tutti la presidente della Camera un tempo sarebbe stata il presidente e magari la presidentessa. Fatto sta che il lungo dibattito sul sessismo linguistico, che sembrava avviato verso un quieto consenso di opinioni, è stato riaperto un po' brutalmente venerdì da Giorgio Napolitano". Prosegue l'articolo: "Si potrebbe buttarla sulla questione generazionale: la difficoltà, per parlanti più anziani, ad accogliere il cambiamento. Ma ad attenuare l’ipotesi anagrafica è la voce di Sergio Lepri, classe 1919 e storico direttore dell'Ansa, cui si devono diversi interventi a favore delle ministre e delle prefette: «Non sono d'accordo con Napolitano: l'androcentrismo linguistico è un problema che esiste solo in Italia e che non si pone in francese, in tedesco né in spagnolo, dove addirittura c'è la presidenta. Da noi si stenta ad accettare che le donne accedano a professioni per secoli esercitate solo dagli uomini. E trovo paradossale che alcune ministre preferiscano essere ministri». Anche sulla questione del suffisso -essa, che si porterebbe dietro una lieve connotazione dispregiativa, Lepri è molto lucido: «Non arriverei a dire la poeta e la professora, perché poetessa e professoressa sono storicamente entrate nell’uso»". Resta il fatto che quando Napolitano si è espresso la platea ha applaudito con convinzione le sue parole, forse segnalando qualche logica ideologica di troppo, essendo per natura la lingua parlata sempre prevalente rispetto a quella che si vuole imporre. In sostanza: che ognuno faccia quel che vuole, ma non giova che la Boldrini riprenda piccata in aula a Montecitorio quelli a cui scappa Presidente al posto di «la Presidente»... Ho avuto come presidente alla Camera Nilde Iotti, che non aveva bisogno di troppe questioni linguistiche per affermare la sua autorevolezza e il suo stile nell'interpretare una Presidenza risoluta di chi lì c'era sin dalla Costituente, pur sempre attenta com'era alla sua eleganza fatta da una femminilità sobria ma vezzosa. Aveva ragione la scomparsa senatrice a vita Rita Levi Montalcini: «Le donne che hanno cambiato il mondo non hanno mai avuto bisogno di mostrare nulla se non la loro intelligenza».