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17 nov 2016

Nel ricordo di Umberto Veronesi

di Luciano Caveri

Umberto Veronesi se ne va a novant'anni, dopo una vita vissuta contro il cancro, cui aveva dedicato studi e ricerche. Se certi progressi ci sono stati per curare la malattia e se è cambiata la percezione della malattia in Italia (il "brutto male" considerato incurabile) lo si deve anche a lui, che accompagnava la solidità dello scienziato ad una capacità di spiegare le cose con semplicità, forte anche di una serenità personale e di un carisma evidente. Sapeva piacere e aveva assunto in campo sanitario un'autorità che gli permetteva di parlare anche di temi delicati come l'eutanasia. Amava la montagna e frequentava con la sua famiglia - come molti milanesi - Courmayeur, dove aveva intessuto rapporti di amicizia e di stima.

Sulla bellezza della montagna aveva detto cose importanti e il suo rapporto di simpatia con la nostra Valle era evidente e lo aveva detto in una conferenza svoltasi ad Aosta con un pienone raro per un conferenziere. Aveva raccontato successi e speranze nella lotta al cancro, parlando ad una platea attenta e preoccupata, visti i tassi molto elevati che ci sono purtroppo da noi nella diffusione della malattia, che sembra colpire in modo cieco e crudele tutte le fasce di popolazione. Lui disse in sostanza che bisognava abituarsi al fatto che una persona su due venisse colpita dalla malattia, che bisognava avere fiducia nella crescente percentuale di guarigione, che la malattia è dovuta più a fattori ambientali che ereditari, che gli stili di vita sono necessari per prevenire l'insorgenza del tumore. Lo aveva fatto con grande eleganza, rispondendo anche alle domande del pubblico con l'approfondimento di temi non semplici resi abbordabili anche dal grande pubblico. A me era piaciuto molto e il lungo applauso finale ne fu la testimonianza concreta. Un giornalista valdostano di origine, Dario Cresto Dina de "La Repubblica", con cui cominciammo la carriera negli studi di "RTA" ad Aosta, lo intervistò un anno fa e mi permetto di trarre qualche domanda e risposta, che mi paiono essere efficaci più del mio ricordo personale.

Quando era giovane riusciva a immaginarsi da vecchio, ha provato qualche volta a proiettarsi fin qui, nel posto dove il passato e il futuro si sono invertiti i ruoli, tanto da desiderare di più quanto ci siamo lasciati alle spalle che ciò che abbiamo davanti? «Quando sei giovane non pensi alla vecchiaia e man mano che invecchi il confine fra "giovane e anziano" si sposta sempre più in là. Semmai si pensa alla morte, questo sì. Io ci ho pensato molto perché sono un sopravvissuto. A diciott'anni in guerra sono saltato su una mina e sono rimasto vivo per caso. O per miracolo, qualcuno direbbe. Da allora ogni giorno di vita per me è una conquista. Ho deciso che avrei colto la bellezza dell'esistenza a piene mani, finché vita ci fosse stata. E così è avvenuto. Non mi sono fatto mancare nulla». Lei ha detto: se esiste il diritto alla vita, esiste anche il diritto di morire. Si chiama eutanasia. Sarebbe pronto a farvi ricorso? «Senza la minima esitazione. Se una malattia mi privasse della mia dignità di persona chiederei l'eutanasia. Ho fatto anche il testamento biologico che contiene le mie volontà sulla fine della mia vita, in caso mi accadesse di essere incapace di esprimerle di persona». Se si guarda indietro, qual è il suo più grande senso di colpa? «Non aver fatto abbastanza per salvare l'umanità dal cancro». Meglio Derrida: "imparare a vivere significherebbe imparare a morire, a considerare, per accettarla, la finitezza assoluta della vita, senza salvezza, resurrezione o redenzione". O Cioran: "chiunque non muore giovane presto o tardi se ne pentirà". «Derrida dalla prima all'ultima parola. Vivere più a lungo permette di produrre più idee e le idee rappresentano la nostra immortalità. Il senso della vecchiaia è questo. E il senso della vita, in fondo». Un'altra sua citazione: "mi preparo a morire senza accorgermene". Che cosa significa? «Considero la morte un dovere e un imperativo biologico. Fin da ragazzo ho pensato che la vita deve finire e non ha alcuna dimensione metafisica. Chi crede nella finitezza assoluta della vita è sempre pronto a morire. Non c'è da perdonare né da chiedere perdono dei peccati o redimersi per garantirsi un buon soggiorno nell'aldilà. Se le nostre idee sono la nostra immortalità, con la nostra vita di pensiero, ogni giorno ci prepariamo a morire».

Parole serie e di grande saggezza. Grazie, Professore.